IL MATERIALE E L'IMMAGINARIO NELLA CULTURA DEL MARCHESATO CROTONESE

L’autore inesistente

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Lo pseudonimo e l’autore

Cos’hanno in comune Le Corbusier, Donnu Pantu e Bob Dylan? Poco o niente a prima vista; il primo è notoriamente uno dei padri dell’architettura moderna, il secondo è il licenzioso poeta di Aprigliano del 1600, il terzo è il grande folksinger americano, un mito vivente anche del rock e del blues. Sembra che non ci sia nessun punto di contatto tra di loro, ma a ben sapere tutt’e tre questi nomi non sono altro che psuedonimi di tre persone che nella loro vita si chiamavano (e si chiamano ancora nel caso di Dylan) rispettivamente Charles Jeanneret, Domenico Piro e Robert Zimmerman. Bisogna proprio chiederselo come mai una persona lascia il proprio nome e ne assume un altro. ” ” Abbandoniamo subito la psicologia, le turbe psichiche, il gioco del nascondino: la gran parte di coloro che si presentano ad un pubblico con un nome che non è quello anagrafico non ha problemi di questo tipo – anzi. Tra di loro ci sono persone che nel corso della loro vita hanno mostrato coraggio, chiarezza di vedute e sensibilità certamente fuori dal comune. Via dunque le analisi psicologiche e affrontiamo il caso da un punto di vista artistico. Sì, perché quello che certamente accomuna i tre personaggi sopra citati è il fatto di essere in qualche modo impegnati in lavori che hanno a che fare con la creatività e l’arte. Tanto è stretto il nesso tra pseudonimia e creatività che non è azzardato partire proprio da qui per cercare di capire cosa gira intorno al fenomeno. Non è comunque un affare recente; William Shakespeare sulla relazione tra nome e persona ha scritto nel 1594 una delle più belle pagine di ogni tempo. Nella seconda scena del secondo atto di Romeo and Juliet, Giulietta Capuleti invita Romeo Montecchi ad abbandonare il proprio nome e a prenderne un altro, e questo perché Romeo ha il cognome della famiglia in aspra e continua lite con quella dell’amata. “Cosa c’è in un nome?” gli dice Juliet, “Non è la mano, non è il piede, non è il braccio, non è il volto né qualsiasi altra parte del corpo di un uomo.” Cerchiamo di vederci meglio. Dobbiamo subito mettere da parte quei casi di pseudonimi adottati da persone che hanno inteso rendere più semplice la pronuncia del loro nome e cognome anagrafici, come per esempio ha fatto Sofia Scicolone quando ha cominciato a fare l’attrice e ha scelto di chiamarsi Sofia Loren. Mettiamo anche da parte quelle scelte dettate da ragioni di marketing e di stile, come Carlo Pedersoli, meglio conosciuto come Bud Spencer, o Teodor Jòzef Konrad Korzeniowski il quale, quando ha cominciato a scrivere racconti in inglese, ha firmato i suoi capolavori narrativi con il nome di Joseph Conrad – è lui l’autore di Cuore di Tenebra (1899), da cui è stato tratto il film Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979). Mettiamo anche da parte quei casi di pseudonimi che in realtà non sono altro che diminuitivi del nome, come Totò (da Antonio, Antonio De Curtis), o Woddy Allen (da Heywood Allen Stewart). Non è che questi siano casi di scelte compiute con faciloneria; farsi chiamare con un nome non proprio non è mai un affare di poco conto. Mi pare però che siano più evidenti in questi esempi ragioni pratiche o casuali, come il caso dei diminuitivi.

Ci sono poi i casi che lasciano spazio a riflessioni più profonde, che riguardano generalmente i modi in cui l’autore intende collocare la sua opera nel mondo. Questa collocazione in effetti non è che l’ultima di una serie di scelte che l’autore compie a partire dal momento in cui concepisce l’opera fino a quando la licenzia. Vorrei puntare l’attenzione su uno di questi momenti: quello in cui l’opera nasce o, per meglio dire, viene in possesso dell’artista.

Il poeta irlandese William Butler Yeats a questo proposito affermava che vi è un preciso luogo dove le opere d’arte risiedono, luogo che chiamava spiritus mundi; diceva che certa gente quando crea non fa altro che raggiungere questo luogo, prendere la roba artistica e tornare indietro. (Molte altre persone nel corso dei secoli hanno parlato di questi luoghi, ma Yeats mi è rimasto più in mente perché a quel luogo ha dato un vero e proprio nome.) L’atto creativo, secondo l’Irlandese, sembra quindi contenere in sé un lungo tempo di magico attraversamento, un viaggio più o meno intimo per luoghi lontani e che ci fa sentire diversi. Parliamo allora adesso proprio di quei casi di persone che nell’adozione di un diverso nome mostrano segnali di una concezione dell’arte come un luogo altrove. Così, non è certo un cattivo nome Ettore Schmitz, ma lui ha firmato La Coscienza di Zeno (1923) con il nome di Italo Svevo. Ogni pseudonimo a questo punto meriterebbe una trattazione a sé; per esempio il nome appena scritto non è altro che un composto di due nazionalità, per giunta non più attuali, ma appartenenti alla storia antica e medioevale: Italo significa abitante dell’antica Italìa, l’Italia prima dei Romani; Svevo è l’abitante di una regione storica della Germania sud-occidentale, il cui esercito ha invaso l’Italia nel corso del 1200. Due antiche nazionalità, due nomi che comunque suonano bene insieme. Sembrano derivare proprio da una qualche ponderata scelta, ma non è possibile parlarne oltre rimanendo costantemente nell’ambito delle certezze. Allo stesso modo ha giocato poi Carlo Alberto Salustri quando ha deciso di firmarsi Trilussa: il nome del poeta romano non è altro che un anagramma del cognome, ed è anch’esso determinato da una particolare esigenza di estraneità, non certo dal caso. Si dice poi che Robert Zimmerman abbia scelto un cognome come Dylan per rendere in qualche modo omaggio a un grande poeta gallese, Dylan Thomas; ma non credo che se qualcuno chiedesse a Bob di confermare questa motivazione lui risponderebbe qualcosa di definitivo; mi sembra comunque un inconfondibile procedimento evocativo. Anche il caso di Agatha Christie sembra appartenere a questo ambito; anagraficamente era Agatha Mary Clarissa Miller. Agatha Miller poteva anche andare bene, ma scelse uno pseudocognome totalmente nuovo. Le doveva piacere vestirsi d’altri panni nel momento di scrivere i suoi appassionanti e fortunati thriller – una volta si firmò anche Mary Westmacott.

Il caso più straordinario è certamente quello del portoghese Fernando Pessoa, nato nel 1888 e vissuto fino al 1935. Ha scritto una gran moltitudine di opere letterarie firmandole con diversi nomi, creando persone fittizie con vere e proprie biografie e stili di scrittura.

Il bello è che solo dopo la sua morte è cominciato a venire alla luce qualcosa di questo mondo di persone che vivevano dentro di lui. In vita lui ha pubblicato col suo nome solo una raccolta di poesie e forse qualche altra cosa. Per molti anni i critici si erano fatti l’idea di una letteratura portoghese ricca e variegata, con personaggi quali Alvaro De Campos, Bernardo Soares, Ricardo Reis insieme al padre letterario di tutti: Alberto Caeiro; ebbene, erano tutti nomi creati dalla sua felicissima fantasia – straordinario. Molti scrittori in effetti credono davvero di avere moltitudini dentro di sé, anche in aspra contraddizione a volte. è una condizione comune; mi viene in mente il poeta americano della beat generation Allen Gingsberg, che spesso riceveva per queste sue ‘moltiplicazioni’ critiche del tipo: “Ma tu ti contraddici!” Non so se Gingsberg avesse mai letto Pessoa, ma in una poesia scrisse per risposta a quei mediocri: “Mi contraddico? Bene, allora vuol dire che contengo moltitudini.”

Un altro ambito di pseudonimia si sta sviluppando oggi in Italia e nel mondo, che lega la letteratura propriamente detta al software; meglio: lega i diritti di tutela delle opere letterarie e quelli del software. Si tratta del fatto che a volte la legge sulla proprietà intellettuale funziona come una vera e propria trappola per la diffusione delle idee e dei saperi. è nato così il copyleft, un bel gioco di parole che fa il paio con il ben conosciuto copyright. Si tratta, in poche parole, di lasciare che le opere messe in circolazione col sistema copyleft possano essere liberamente utilizzate, divulgate e addirittura modificate a patto che si osservino queste disposizioni: 1) che non lo si faccia a scopo di lucro (nel caso contrario si devono pagare i diritti secondo il sistema del copyright), 2) che si distribuisca l’opera con le stesse disposizioni di partenza e 3) che si citi in fondo allo scritto o al programma il nome del creatore. è una pratica che si sta diffondendo enormemente anche tra le più grandi star della musica, americani in testa. In letteratura accade addirittura che l’autore che scrive qualcosa e la immette sul mercato con la dicitura copyleft usa spesso uno pseudonimo! È il caso del famoso Luther Blisset, un nome usato da più di un individuo; ma anche di Wu Ming.

Con questi nomi sono stati pubblicati romanzi e saggi stampati da prestigiosi editori; sono stati vinti premi, organizzati convegni e molto altro. Dietro questi ‘titoli’ ci sono persone reali che hanno in gran parte rinunciato alla notorietà e all’idea dello scrittore bravo, ispirato e famoso, chiuso nel suo lavoro. Se per Pessoa si parla di multipla personalità, nel caso di Blisset e Wu Ming si parla di nomi collettivi, cioè lo stesso nome usato da più persone. Tra l’altro, la lingua inglese in questo caso aiuta a riempire il copyleft di un significato politico. Infatti left è il participio passato del verbo lasciare, significa quindi lasciato, cioè: ‘diritto d’autore lasciato’ – cosa che in effetti l’autore fa: lascia agli altri il diritto di utilizzare la sua opera (sempre a condizione, come detto prima, che non la si usi a scopo di lucro, che si continui a usare il copyleft e che si citi la fonte). Però in inglese right oltre che diritto (in senso legislativo) significa anche destra, mentre left, guarda caso, oltre che lasciato significa anche sinistra! Il tema ha davvero un aspetto storico di grande rilievo, e non certo solo per questo gioco linguistico.

Non mancano infatti quotidianamente casi di attualità politica (proibizione a pubblicare, sequestri di server, politiche sulla privacy, sviluppo di sistemi planetari di controllo sociale, strane intrusioni sulle linee telefoniche, anonime rivendicazioni di crimini via internet, commercio illegale di nomi e indirizzi) che possono testimoniare quanto il mercato mondiale della comunicazione subisca ovunque un forte e continuo controllo. Ci sono persino seri teorici che si posizionano ancora oltre i territori della sinistra, e che credono che la pseudonimia, il nome collettivo o l’anonimato possano addirittura funzionare come una leva per scardinare un sistema sociale e politico superautoritario che sulla identificazione fonda le basi della propria sopravvivenza.

Si tratterebbe di vera e propria ribellione intellettuale a una logica dove i ricchi (editori, proprietari di mezzi di informazione e comunicazione, grandi aziende dell’informatica) si fanno sempre più ricchi mentre il 99,9% della popolazione deve per forza di cose ascoltare e consumare tutto quello che essi decidono di far circolare o di trasmettere; è una specie di lotta che si attua in modo non violento e, soprattutto, senza commettere alcun reato. Copyleft a parte, sono molti ormai nel mondo gli artisti, gli scrittori, gli informatici, ma anche i grandi musicisti che decidono di far circolare le loro opere con la dicitura è permessa la duplicazione senza scopo di lucro.

In questo modo le idee e i saperi circolano più liberamente, mentre (Wu Ming ne è uno straordinario esempio) si scopre addirittura che questa pratica non è in contrasto con la vendita del prodotto: anzi, più lo rendi libero più si vende, come l’alcol dopo il proibizionismo negli Stati Uniti degli anni Trenta – proibire, infatti, è un verbo che i ricchi e potenti amano usare con particolare frequenza. C’è da dire che anche qui in Calabria sono cominciate a circolare opere con questo sistema, senza copiare idee nate altrove, ma partorendole autonomamente e in seguito a storie e esperienze locali, segno che i giovani della Regione partecipano a questi movimenti sociali con grande spirito innovativo, puntualità e naturalezza. Sulla scia di Donnu Pantu.

Potrebbe essere allora vero che, quando parte con un progetto creativo, l’Autore che usa uno pseudonimo rinnega la sua ordinaria personalità e si prepara ad adottare un nuovo punto di vista. Questo semplice passaggio forse lo allontana dal mondo, funzionando proprio come un innocuo click che in un momento lo libera dalle catene della quotidianetà. A questo proposito scriveva l’agitatore e scrittore politico russo Michail Bakunin negli ultimi anni del 1800: “Gli uomini ci appaiono come esseri assolutamente e fatalmente determinati. Determinati prima di tutto dalla natura circostante, dalla configurazione del suolo e da tutte le condizioni materiali della loro esistenza; determinati da innumerevoli rapporti politici, religiosi e sociali, dai costumi, dagli usi, dalle leggi, da tutto un insieme di pregiudizi o pensieri elaborati pian piano nei secoli e che essi nascendo trovano già pronti in quella società di cui non sono affatto i creatori, ma dapprima i prodotti e poi, più tardi, gli strumenti.” Ecco: con un semplice cambiamento di nome alcuni autori riescono ad assumere un punto di vista nuovo e enormemente più libero da cui guardare l’intero mondo, come se per magia si scrollassero di dosso tutto quello che Bakunin ha individuato così chiaramente. Richiudiamo la porta che dà sul nulla: l’Autore in questo modo non si nasconde; la scelta della pseudonimia non è pavida – è un semplice meccanismo, banale ma utilissimo nell’arte, come lo è un cacciavite per liberare una vite dal legno. O per ficcarcela.

Allora mettiamola così: se una persona usa per la propria attività creativa uno pseudonimo può anche darsi che abbia dei problemi con la comunità in cui vive, o che sia la comunità (e per esteso il mondo intero) che a suo parere abbiano dei problemi con lui. Problemi del tipo che non c’è giustizia, per esempio – la giustizia sociale è importante. O che non sono garantite libertà fondamentali, come quelle del libero scambio di idee, persone, merci. Ecco, di questo non ne posso essere sicuro al cento per cento, ma a volte penso che la scelta pseudonimica si eserciti maggiormente quando l’autore ritiene che la società in cui vive sia autoritaria o conformista, o religiosamente fondamentalista. Quando per esempio grandi criminali commettono abusi e non sono condannati e invece i piccoli ladri vanno sistematicamente in galera. O quando c’è paura di dire le cose per come stanno; non le puoi dire perché altrimenti passi i guai. Quando le verità non si possono dire perché se no si va in galera e invece si devono dire (specialmente in pubblico) le bugie per fare carriera e soldi o almeno per starsene tranquilli. Quando allora l’Autore ritiene che il mondo si trovi in questa situazione o in una simile, e vuole in qualche modo distaccarsene, ecco che è più facile che nasca l’esigenza dello pseudonimo. Emblematico è il caso dello scrittore irlandese Oscar Wilde, uno dei più grandi geni in assoluto della letteratura mondiale, il quale dopo essere uscito di prigione ha scritto due delle sue migliori opere firmandosi con un altri nomi: una volta C.3.3. (un numero di matricola della prigione di Reading) e poi Sebastian Melmoth, sinistro nome contenuto in un certo romanzo gotico. E chissà se anche Michele Pezza, meglio conosciuto come l’imprendibile brigante Fra Diavolo (primi anni del 1800), non provasse una sensazione simile nel riconoscersi più con quel diabolico nome che con quello anagrafico. Anche Pablo Neruda potrebbe aver provato un qualcosa di simile, o George Orwell – chi se li ricorda più i loro veri nomi? Allora aveva proprio ragione William Shakespeare a far dire a Giulietta Capuleti: “Cosa c’è in un nome?”

E se invece come nel film Matrix (Andy and Larry Watchoski, 1999) noi e il mondo non siamo altro che un programma che sta girando su una enorme rete di computer? A questo punto a chi importerebbe più del nome? Come uno si chiama o come non si chiama. Ciò che è importante a questo punto sarebbe cosa stai facendo. Cosa dici e come lo dici, cosa comunichi nell’animo del tuo spettatore, che scopi ha l’opera che hai creato, come si configura nel mondo e che ruolo vi svolge. E il nome dell’Autore a questo punto non ha più alcuna importanza, reale o fittizio che sia; è solo l’opera che si pone davanti ad ogni cosa. Dopotutto, pochi sanno chi ha composto il brano musicale Autumn Leaves – l’autore è Joseph Cosma. Ma se al suo posto ci fosse un altro nome, cosa cambierebbe? Niente. L’avvolgente brano (si muove su ciclici passaggi di accordi di quarte) interpretato dai più grandi jazzisti sarebbe rimasto sempre quella cosa magica che è. E allora forse fanno davvero bene quelli che giocano sui nomi. Perché il nome non ha alla fine alcuna importanza nel nudo processo di lavorìo dell’opera tra gli umani – come ben sapevano molti antichi cantori di gesta epiche o di numerosissime ballate medioevali: tutti anonimi. Il nome in certi contesti si pone addirittura come un ostacolo alla piena comprensione dell’opera, che è il solo oggetto per cui vale la pena di lavorare. Dal punto di vista economico, è naturale che l’Autore riceva dei compensi quando la sua opera è oggetto di altrui guadagno, ma dal punto di vista storico la relazione tra la sua persona è l’opera è in pratica molto vicina al nulla. Il nome di chi scrive diventa così un puro artificio, un semplice costume.

L’Autore in teoria può avere qualsiasi nome – o non averne proprio.

30/10/2006

Felice Campora