Aspetti e problemi delle lotte per la terra
Intervento di Gaetano Cingari
E’ sempre difficile un intervento tra memoria e storia. Non è questo ìl taglio del libro di Villella, ma è questa la mia condizione: non perché, ovviamente, io abbia partecipato ai moti di cui si parla nel libro, ma perché in anni giovanili ho preso parte in altre contemporanee simili vicende. Davanti ad una materia ardente, epica – come ha scritto l’amico Poerio -, lo storico non può illudersi di mantenere l’obiettività che dovrebbe essere intrinseca al suo mestiere.
Tenterò di collocarmi comunque più dal versante della storia che della memoria, anche se, al punto in cui è giunta la discussione, ho di fronte due versioni: la prima, dell’autore, e la seconda, di Vitale, il quale, nella sua ampia relazione, tenta di ricavare dagli avvenimenti una interpretazione degli svolgimenti successivi della lotta nel Mezzogiorno. D’altra parte, tenterò di spiegare quei fatti nel quadro del dopoguerra, al di là dell’area del Lametino, della Calabria e dello stesso Mezzogiorno. Già Villelia propone alcune riflessioni in questo senso e altre sono espresse nella parte conclusiva della relazione di Vitale. Tuttavia è utile riprenderle ed ampliarle. ” ”
Dirò subito che non esisteva solo il PCI, né esisteva solo la sinistra. Esisteva un complesso di forze politico-sociali ed economiche (locale, regionale, meridionale, nazionale) al quale era intrecciata la fase importante della lotta contadina del Lametino. A voler essere più precisi, occorrerebbe accennare al quadro internazionale, forse oggi poco comprensibile per le dinamiche che ne dipendevano, e tuttavia determinante per la comprensione della realtà di quegli anni.
E accennerò al fatto che non tutto, come sembra, cominciò nel 1949. Il riferimento non è solo ai moti contadini precedenti, cui pure si è accennato, di tipo più o meno spontaneista o come la repubblica di Caulonia, ma alla complessiva evoluzione nazionale e meridionale. Il 1949-50 è un primo importante tornante della vicenda apertasi nel 1943. Alle sue spalle ci sono, quanto meno, tre momenti di svolta, il 1946 – la Repubblica -, il 1947 – la rottura dell’ unità nazionale -’ il 1948 – la sconfitta delle sinistre -.
Ora, Vilella, giustamente assorbito dal racconto e dall’analisi dei moti contadini, è costretto a dedicare a questo più ampio retroterra una attenzione limitata. Ma i suoi accenni risultano sempre molto significativi; e se si guarda soltanto alla carta della rappresentanza politica dal 1946 al 1948 si possono già notare progressive importanti variazioni. E’ avvenuta una modificazione di rapporti nella base sociale, e non solo relativamente ai braccianti ma al mondo rurale più vasto e, in particolare, alla numerosa categoria dei piccoli proprietari, alla quale Vitale si richiama, a mio giudizio giustamente, nella sua analisi. E questo si è riflesso nei rapporti politici.
Per l’area del Lametino Villella dice che nel 1946, in sostanza, Nicastro è stata monarchica e non repubblicana. Guardando però la carta elettorale calabrese di quell’anno relativamente al referendum si nota che il rapporto monarchia-repubblica nel capoluogo del circondano non è molto squilibrato: è, anzi, nel quadro generale, un rapporto di progresso. Inoltre ci sono i dati della vittoria repubblicana a Sambiase e a Maida, per limitarci a due casi poi investiti dal moto contadino. La conclusione è che, dal lato politico, la realtà del 1948 è già molto fratturata rispetto a quella del 1946 e che, nel biennio 1949-50, ci si avvia verso equilibri in contraddizione con le spinte dei settori contadini e dei gruppi politici più dinamici.
Che cosa voglio dire con queste considerazioni preliminari? Voglio dire semplicemente che il giudizio storico, o storico-politico, sul movimento del Lametino e su quello contadino più generale deve inquadrarsi nel contesto nazionale, tutt’altro che predisposto a favorire una rottura “ rivoluzionaria “, non solo dal versante conservatore ma nemmeno da quello delle sinistre.
Nel campo socialcomunista dominava la bella e suggestiva formula gramsciana dell’unità rivoluzionaria tra operai del Nord e contadini del Sud, alla quale si richiama un coerente protagonista, Francesco Reale, nel suo recente articolo sul moto lametino; unità che avrebbe dovuto essere, appunto, rivoluzionaria e organica, conquistare e trasformare lo Stato. Questa la linea predicata e spesso vissuta con forte passione al Sud e questa, se volete, anche l’illusione. In concreto tuttavia, mentre il Sud contadino si muoveva, il Nord operaio arretrava e il Partito comunista, pur forza egemone del moto contadino meridionale, manifestava in varie forme la sua armatura ideologica operaista. In una parola il Sud contadino non poteva avere gli sbocchi politici auspicati dai nuclei dirigenti locali.
Si capisce che porre oggi il problema del settarismo e, anzi, del massimalismo delle guide e delle masse che vi parteciparono significa aprire o riaprire una piaga che scotta sulla pelle di protagonisti che s’impegnarono nelle lotte con energica determinazione, pagando di persona in termini di reazione istituzionale ma anche in termini di emarginazione nello stesso movimento comunista. Tuttavia non si può non valutare il ricordato nodo generale, nel quale gli elementi forti, compresi le linee portanti dei partiti di sinistra e del movimento sindacale, spingevano in direzione opposta alle finalità attribuite al movimento contadino meridionale. Lo stesso problema del Mezzogiorno – così come interpretato nel “ Piano del Lavoro “ di Di Vittorio o nelle posizioni dei sindacalisti socialisti – non assumeva difatti un vero e proprio valore meridionalistico, ma assumeva un significato di ampliamento dei mercato per consentire la ripresa dell’apparato industriale settentrionale in crisi. La dinamica contadina, importante per il suo valore di rottura nelle aree latifondistiche e per il conseguente impianto democratico, acquistava indubbiamente anche un suo importante peso nella contestazione del sistema in via di ristrutturazione, ma non poteva rientrare in una linea rivoluzionaria, peraltro già accantonata negli anni precedenti.
Ma, a questo punto, è più importante e giusto entrare nel merito dell’interpretazione, nuova e suggestiva, che Vilella trae dall’esame dei fatti del Lametino. Io stesso, nella mia Storia della Calabria, non accenno a questo movimento. Mi riferisco soltanto alle zone latifondistiche del Marchesato di Crotone e a quelle presilane. E il fatto che io non abbia trovato in altri più specifici testi riferimenti concreti su fatti di tale ampiezza, significa che quanto meno c’è stata una dimenticanza o un’omissione. Si potrà discutere se finalizzata, consapevole o no, ma in ogni caso di significativo valore politico, oltre che storico, come emerge dal libro che discutiamo.
In quel mio libro mi ero comunque discostato dall’interpretazione di Piero Bevilacqua sul movimento contadino calabrese proprio perché essa assumeva troppo strettamente l’impostazione tradizionale del PCI e della storiografia comunista. In sintesi, si diceva: “ Grande e positivo movimento contadino dei Marchesato di Crotone e nelle zone presilane. Crolla la Calabria dei Baroni “. E su questo nessun dissenso. Ma si aggiungeva: “ debolezza e incapacità dei dirigenti nel Reggino dove un movimento contadino non è nato o, là dove si è espresso, ha dato vita a episodi scarsamente incidenti “. Da parte mia obiettavo a Bevilacqua che una era la condizione della Calabria latifondistica, un’altra quella dove predominava la media e piccola proprietà e dove soprattutto le figure stesse del bracciante e del minuscolo proprietario erano strettamente intrecciate; e dove peraltro il diverso contesto strutturale e colturale avevano stratificato condizioni non certo disponibili a parole d’ordine come l’esproprio generalizzato.
Il moto lametino rappresenta un caso ben diverso, e per questo più interessante, sebbene poco noto fino alla ricostruzione che ne ha fatto Vii- iella. Esso, in sostanza, si sviluppa in un’area ad agricoltura specializzata, benché le aziende che vi operano appartengano spesso ad un capitalismo improprio e persistano zone di scarsa utilizzazione delle terre pur disponibili; e perciò, mentre coinvolge una ampia fascia bracciantile, provoca una forte resistenza nel ceto proprietario, non esclusi settori della stessa piccola proprietà o dei professionisti ad esso comunque collegato. Dovendo andare al di là dei decreti Guilo e Segni, con un’interpretazione sociale di “ terra incolta “ o “ scarsamente coltivata “, pone problemi di riforma di più ampia portata. Di più – e siamo di fronte ad un dato politico di assoluto rilievo – quel moto non fu legittimato, anzi fu sconfessato come estremista e massimalista, sia dai dirigenti comunisti catanzaresi sia da Mario Alicata.
L’opzione dì Alicata per il movimento nelle aree latifondistiche, incentrato sostanzialmente sui braccianti poveri, e – al contrario – la sua opposizione al moto lametino dovranno essere approfondite. Personalmente sono perplesso sul giudizio complessivo, sebbene sia abbastanza chiaro che la linea adottata dal centro, come si diceva prima, non consentiva di varcare i limiti prefissati in relazione al quadro generale. D’altra parte, pur signiiicativa l’emarginazione del nucleo dirigente accusato di massimalismo e di confusionismo rivoluzionario.
Sul tema tuttavia, in altra forma, insiste Vitale nella sua relazione, che spero di aver colto nei punti essenziali dalla lettura che se ne è testè fatta. Vitale dice che il movimento del Lametino era, nel suo nucleo ispirativo, avanzato e che le questioni da esso poste avrebbero assunto un valore importante se ci fosse stata la riforma agraria generalizzata. Ma osserva nello stesso tempo che esso era arretrato in quanto (l’osservazione va rilevata) metteva in contrasto il bracciante con gli strati piccolo-proprietari. Non aver tenuto conto di questa oggettiva situazione ha di fatto limitato la stessa interpretazione di Vilella, molto critica della linea ufficiale dei comunisti e di Alicata.
Ora, a me sembra che nella parte finale Vitale ipotizza le cose che scriveva all’epoca Manlio Rossi-Doria, il quale però le scriveva contro le sinistre. Come si può sciogliere questa contraddizione? Si deve certo ricordare che Rossi-Doria (lo ricorda Villella nelle prime pagine del suo libro) era stato relatore sull’agrìcoltura al convegno meridionalista di Bari e che era allora uno dei pochi che aveva intravisto i processi di crisi del vecchio blocco agrario e aveva posto perciò l’esigenza primaria della modernizzazione agraria. Ma non si deve soprattutto dimenticare che egli ruppe nel 1946-47 l’alleanza con la politica agraria della sinistra perché la formula x la terra ai contadini “ era superata e l’auspicato processo di modernizzazione non poteva trascurare né i rapporti tra le varie categorie del mondo rurale né il rapporto tra campagna e città. Sono note le sue polemiche con Sereni che lo definiva il “ professore Ammazzagatti “; sono note le ragioni da lui avanzate per spiegare che una vera riforma agraria non era allora possibile per condizioni politiche generali interne e internazionali; e sono anche note le sue delusioni dopo la legge stralcio e la legge Sila. Ma il punto vero è che l’impostazione delle sinistre si svolgeva entro binari realmente agibili in situazioni strutturali ben precise e limitate, nelle quall il conflitto radicale spaccava di fatto la base rurale, né ci è lecito spiegarla con la evoluzione successiva e, tanto meno, con ipotesi non verificabii.
In realtà, il moto larnetino usciva dallo schema e innescava fattori di conflitto ancora più decisivi, in questo senso scontrandosi di più con il quadro generale di cui si è già parlato. Fu questo il timore di Alicata? Ci furono altre questioni interne al gruppo dirigente? Il contestato massimalismo dei dirigenti locali si riferiva soltanto al fatto che le rivendicazioni lametine incidevano più profondamente nel diritto di proprietà? Si ebbe timore, a differenza che nel Marchesato, del conflitto tra braccianti e medi e piccoli proprietari? Sono tutte domande legittime. Quel che il libro di Villella ci spiega in modo esauriente è che occorre andare oltre il quadro degli studi sul movimento contadino meridionale e calabrese, limitati finora alla tesi ufficiale comunista e a quella ad essa contrapposta di tipo “rivoluzionario “.” Atti del primo Congresso storico calabrese “Cosenza 15-19 settembre 1954
È stato affermato che la posizione geografica o la conformazione fisica della Calabria si presentano come le più opportune per assicurare la prosperità del paese, sol che una minima industria degli uomini fosse volta a valorizzare le felici condizioni poste dalla natura.
Situato tra due mari corsi e ripercorsi intensamente da tutti i popoli del Mezzogiorno nel lungo susseguirsi di secoli, avendo come dorsale l’Appennino che corre dapprima in un’unica linea centrale per dividersi poi in due rami e far posto alla vasta valle del Crati, acconcia alle comunicazioni, avendo un clima rigido sull’altopiano e sui monti e caldo nelle spiagge dei due mari, e terre a diverse altitudini, ricche di acque scendenti al mare, anche se con pochi corsi perenni, il paese poteva apparire come singolarmente atto alla maggiore varietà delle culture e dei prodotti, alle più larghe possibilità dell’irrigazione, al commercio, se non a cavaliere della dorsale appenninica, almeno attraverso il mare, ch’è il più comodo delle genti.
” “ Poteva pure sembrare che l’utilizzazione del bosco, la grande diversità delle colture, la fertilità del suolo, il gran valore di alcuni prodotti tradizionali nell’economia agraria calabrese dovessero assicurargli cospicue ricchezze; e che queste, mediante opportuni contratti agrari, fossero equamente ripartite tra le classi coltivatrici.
Gli eventi politici hanno disposto altrimenti della Calabria. Le marine e le pianure furono disertate dalle incursioni dei Saraceni, ricordate nelle numerose torri costruite lungo il litorale Jonico a difesa o a segnalare l’arrivo di quelli. Le popolazioni, asserragliatesi fra i monti, furono costrette a disboscare per far largo a terre coltivate, donde ricavare da mangiare. Le acque in piena, non regolate, sui fianchi precipiti delle montagne, delle industrie mani dell’uomo, portarono, di conseguenza al degradamento della montagna, all’impaludamento delle valli e delle cimose costiere, alla più pestilente malaria. Le incursioni e le conquiste di quanti dominarono il paese – Normanni, Svevi, Angioini, Francesi, Spagnuoli, Tedeschi, Borboni – col congiunto ordinamento feudale e col continuo parteggiare e guerreggiare, accrebbero i disordini e la miseria; aggravarono la prepotenza dei signori, la miseria e l’abbrutimento dei contadini e resero incerto il magro prodotto di una terra appena coltivata in alcune plaghe.
Premessa di riscatto dall’isolamento in cui era piombato il paese fu l’avere iniziativa, durante il decennio francese, la prima strada rotabile che collegasse le Calabrie alle altre provincie del reame di Napoli.
Più fondate speranze e maggiori possibilità di miglioramento furono la legge evertitrice della feudalità, la iniziata divisione dei demani comunali, la vendita dei beni dei conventi; le quali cose, se non recarono, di colpo, i profondi rivolgimenti economici e sociali che studiosi di economia e politici si erano ripromessi, dettero forte ne tronco e nella radice della mala pianta feudale, sì da atterrarla del tutto, accrebbero il numero dei proprietari, anche se molti dei nuovi ricchi borghesi si sostituirono nel latifondismo alla vecchia classe feudale. Inizio di nuove cose fu certo quel decennio francese nel quale si realizzarono non poche delle riforme che la corrente progressista del paese aveva affermato necessarie e urgenti all’economia ed alla prosperità del reame. Ma inizio stentato, continuamente negato da una politica economica e finanziaria miope ed egoista, sospettosa di qualsiasi novità, timorosa del mareggiare delle classi agrarie umili eccitate dalla disperazione e dalla fame; rallentato dalle crisi economiche e dall’incertezza politica del ritorno a vecchie abitudini di prepotenza e di violenza da un lato, da brutale ed afferrata rivolta, o da più abbietto e supino servilismo, dell’altro.
Ed ecco perché nel 1860, quando gli eventi politici e militari saldarono, col reame, la Calabria al resto d’Italia, le condizioni della vasta e fin allora pressoché sconosciuta regione si rivelarono in tutta la loro disperante gravità. Le pagine di Leopoldo Franchetti sulla Calabria e sulla Basilicata, pubblicate nel 1875, all’indomani del viaggio attraverso quelle regioni, nell’opera «Le condizioni economiche ed amministrative delle provincie napoletane» e le altre dovute all’on. Ascanio Branca, inserite nel 1883 negli «Atti della giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola » cioè dell’inchiesta Jacini, ci presentano l’agricoltura calabrese allo stato quasi selvaggio: appena coltivate colline che sembravano fatte apposta per la coltura, nelle quali i rari olivi con la loro vegetazione rigogliosa mostravano quanto sarebbe stato facile trarne ricchezza piantandone altri; abbandonate vaste contrade dell’Appennino con pendici in gran parte disboscate, deserta ed incolta la sterminata solitudine della Sila, pressoché tutte le marine e le valli interne dei fiumi avvelenati dalla malaria, malamente coltivate ed incolte, vaste contrade precipiti lungo i fianchi delle montagne, tormentate, tagliate, forate, franate, dalle fiumare in piena, che, dapprima rigagnoli, scavavano, in breve, fossi larghi e profondi; basse colline e pianure del Crotonese ancora del tutto incolte o coltivate saltuariamente, dopo il necessario riposo di uno, due e più anni.
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23/10/2006
Raffaele Ciasca