IL MATERIALE E L'IMMAGINARIO NELLA CULTURA DEL MARCHESATO CROTONESE

L’uomo a cavallo dell’asino

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Conversazione con Pietro Ingrao

Può accadere a un docente dell’Università della Calabria di essere invitato da un suo studente a svolgere una conferenza-dibattito su Gramsci in un paese della pre-Sila, Pedace, e di scoprire colà sia una preparazione culturale e un’ansia di partecipazione veramente inusuali (egualmente condivisa dagli aderenti alla Sinistra giovanile e dai Giovani comunisti di Rifondazione), sia una “memoria storica” del tutto particolare: il ricordo tenace, evidentemente tramandato tra le generazioni, di Pietro Ingrao. A partire da un episodio lontano nel tempo, e quasi mitico, risalente al 1943, alla lotta clandestina che i comunisti conducevano allora contro il fascismo.

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Poiché ritengo che mai come ora la memoria storica sia qualcosa di importante e vada coltivata in tutti i modi, ho chiesto a Ingrao di ricordare per i lettori di Ora locale l’origine del suo rapporto con Pedace e con la Calabria. Cosa che egli ha accettato volentieri di fare, dando anche in questo segno tangibile di un ricordo e di un legame affettuoso che il tempo non ha incrinato.

Ingrao e la Calabria: quali sono stati i tempi e i modi del tuo primo incontro con la realtà calabrese? E’ vero che coincidono con la tua entrata in clandestinità, nel ‘43?

Facciamo un passo indietro. Entro in clandestinità all’inizio del ‘43, dopo una serie di arresti che colpiscono il nostro “gruppo romano”, e dai quali io mi salvo, direi, per un pelo. Ai primissimi del dicembre 1942, la polizia fascista piombava sulla organizzazione comunista clandestina che si richiamava ormai al Pci e su un gruppo anch’esso clandestino, che aveva preso il nome di “Scintilla” e che era di una ispirazione oscillante tra il trotzkista e l’anarchico: noi lo chiamavamo “il gruppo di Montesacro”, perché in quel quartiere di Roma aveva la sua pur gracile forza. E del resto gli eventi mondiali incalzavano. E noi sentivamo il bisogno di allargare la trama cospirativa. Furono arrestati i fratelli Puccini e Marco Cesarini Sforza, vicinissimi tanto a Mario Alicata che a me, su cui in qualche modo pesava allora la responsabilità maggiore di direzione di quel nucleo segreto del Pci, insieme con Lucio Lombardo Radice, appena uscito dal carcere.
Alicata ed io eravamo quindi sicuri che la polizia era anche sulle tracce nostre. Eravamo d’accordo che se uno di noi due cadeva, l’altro si sarebbe dato alla macchia, che era per noi esperienza del tutto nuova. Personalmente, mi salvai perché a Natale ero partito improvvisamente, e non senza riluttanza, con mia madre per raggiungere mia nonna, gravemente ammalata, a Lenola, il mio paese natio, in provincia di Latina.
Tornato a Roma dopo tre giorni, dalla stazione telefono (per una di quelle prudenze cospirative a cui eravamo tenuti) a casa di Giuseppe De Santis, che mi avverte dicendomi: “Mario si è fatto un po’ male”. La mia clandestinità data da quel momento. Mi nascondo per alcuni giorni in casa di amici, anche a casa di Luchino Visconti. Lucio Lombardo Radice mi convince poi ad andare a Milano. Dico “convince” perché io ero molto incerto, quasi rassegnato all’arresto, che rappresentava per un comunista allora come una sorta di duro disvelamento: cadeva la finzione. A Milano avevo il recapito di Salvatore Di Benedetto, un compagno con cui eravamo in contatto. In Lombardia trascorro un paio di mesi, nascosto in una casa di Corso di Porta Nuova a Milano, poi per qualche giorno nella casa di campagna del pittore Birolli, poi in una locanda alle porte di Voghera: si chiamava “Osteria della Rivazza”. Alla fine di febbraio, però, la situazione a Milano diventa rischiosa e la mia protezione rischia di mettere in pericolo altri compagni (c’era già allora a Milano una rete diffusa di dirigenti come Massola, Negarville, Bosi ma questo lo sappiamo). Decidono di mandarmi a Cosenza, dove c’era una cellula con cui aveva stabilito un rapporto un compagno, Ferro, che era stato al confino a San Lucido. A Cosenza c’era un nucleo comunista antico, era la città di Gullo e di Lacamera, che erano stati deputati, anche se poi critici verso il partito, su posizioni bordighiste.

Questi nuclei comunisti, queste cellule, si costituivano allora in modo autonomo, per germinazione spontanea, o per iniziativa dall’alto?

La costituzione di gruppi clandestini variava da luogo a luogo. Il nostro gruppo romano è un frutto di un lavoro di anni, periodicamente interrotto dalle retate della polizia. Noi, tramite Giorgio Amendola, riuscimmo ad avere il contatto con il gruppo dirigente del Pci che stava a Parigi. Altri passarono per strade diverse o fecero tutto da sé, o quasi. E tutto poi era continuamente interrotto dalle retate occhiute della polizia. Si potrebbe dire che si navigava a vista.
Cosenza già aveva un insediamento comunista, un humus. Il gruppo di compagni che lì ho conosciuto si considerava comunista, era legato a un vincolo di partito, ma in parte era anche solo il sopravvivere di un’area di opinione. Non mi sembra che vi fosse un legame organico col centro del partito, i rapporti allora erano spesso più labili e confusi di quanto oggi si pensi. Accanto alle vecchie sedimentazioni, c’erano però nuovi “acquisti”. Il compagno che in Calabria mi ha aiutato maggiormente, anche il più impegnato nella milizia attiva, Ciccio Andretti, aveva la mia età o press’a poco. In tutto il mio soggiorno cosentino, Gullo l’ho incontrato solo una volta, verso la fine, e non mi sembra fosse allora nella trama attiva del partito. C’erano forme varie e fluttuanti di impegno.

Come ti sei trasferito da Milano a Cosenza?

In treno, con una tessera falsa, intestata a Vittorio Infantino, commettendo anche un’imprudenza, poiché il treno si fermava nella stazione di Fondi, a un passo dal mio paese, dove potevo essere riconosciuto. Arrivato a Cosenza, il recapito che mi era stato dato era l’officina di un garagista, Bebè Cannataro, uomo molto simpatico e allegro. Sono rimasto in casa sua solo un paio di giorni, abitava nella parte piana della città, non a Cosenza vecchia. Ho incontrato subito Ciccio Andretti, che era chiaramente come dire? – il “capocellula”. Mi sono trasferito poi a casa dei fratelli Burza, una casa di comunisti divenuti imprenditori. E ricordo che qui ho mangiato splendidamente. Ma si ritenne che restare a Cosenza era troppo pericoloso. Andretti mi accompagnò in treno a Camigliatello, in Sila, dove sono rimasto diverse settimane in una casa rustica, nei boschi, in cui alloggiava un gruppo di taglialegna. Non erano compagni, erano amici di Andretti, qualcuno forse anche simpatizzante: gli fu detto che avevo avuto un esaurimento nervoso e dovevo riposare. Son sicuro che capivano che mi nascondevo per ragioni politiche, ma agiva una omertà che forse non era nemmeno tutta politica: era solidarietà con uno perseguitato dagli sbirri.

Come trascorse il tuo soggiorno in questa casa isolata nel bosco?

Restavo solo, a casa, quasi tutto il giorno, leggevo qualche libro procuratomi da Andretti e giravo per i boschi, in solitudine. Alle cinque rientravano i taglialegna e tutti insieme si preparava la cena. Si mangiavano delle cose piccantissime che non mi piacevano, ma non osavo chiedere di non mettere il peperoncino nelle mie pietanze, mi sembrava una cosa da signori. Il sabato essi si recavano nei rispettivi paesi, restavo assolutamente solo in quel lembo della foresta silana. Non ho dimenticato più quel silenzio e quel noviziato da clandestino. Qualche volta la domenica saliva a tenermi compagnia Andretti, con la necessaria prudenza.

Non avevi echi dal mondo “grande e terribile”?

Nessuno, ero completamente isolato. Dopo qualche settimana vi fu un allarme, sembrava che qualche voce fosse giunta fino ai carabinieri. Sono stato allora mandato a Spezzano della Sila, a casa di un anziano, carissimo compagno, Zumpano: una sistemazione un po’ rischiosa, in parte bilanciata dal fatto che al primo piano c’era un balconcino da cui si poteva scappare in un agrumeto. In quella casa, in soffitta, ho fatto una scoperta splendida: le vecchie collezioni, degli anni venti, dell’Avanti! e dell’Unità, conservate preziosamente per tutti i lunghi anni della dittatura, a rischio di galera o di botte. Era una fedeltà coraggiosa. Dunque buona parte della mia giornata in quella casa silana io la passavo “in biblioteca”, tranne gli intervalli per il pasto. Spezzano significò anche il ritorno a un desinare meno sobrio, più buono; ricordo soprattutto buonissimi piatti di maccheroni e la carne di maiale, e salsicce e arance. La sera si chiacchierava, ma si andava a letto molto presto. Una vita tutto sommato gradevole, anche se con sempre un’idea di pericolo incombente. Non credo, ad esempio, di avere mai fatto una passeggiata per il paese. Dopo pochi giorni, del resto, ho dovuto cambiare ancora nascondiglio, non ricordo bene perché, forse un allarme, e mi sono trasferito nella zona dove sono rimasto più a lungo, nelle campagne di Pedace.

Com’era il paese allora?

A dir la verità, il paese vero e proprio l’ho visto e conosciuto molto tempo dopo. Allora sono stato portato direttamente in campagna.

Come avvenivano i trasferimenti?

A piedi, grandi camminate. Avevo allora ventott’anni, una buona salute, non sono stato mai male, tranne a volte qualche bruciore per il cibo, troppo piccante. E mi piaceva camminare. Trovai riparo vicino Pedace grazie a un compagno, Cesare Curcio, che aveva una campagna, con una capanna nemmeno granché grande: a metà tra il terriccio (non c’era pavimento) e il tetto, c’era un soppalco di legno, dove si usava porre a seccare le castagne, grazie a un grande fuoco acceso sotto di esso. Portarono appositamente per me un letto rustico a cavalletto, con pesanti coperte per difendersi dall’aspro freddo. Accanto alla capanna, fuori, c’era una piccola tettoia, sotto cui stava un breve per cucinare. Io abitavo lì. La mattina veniva sempre, in groppa a un asino, una persona che ricordo come l’uomo più generoso e dolce che abbia conosciuto nella vita, il padre di Cesare Curcio, un uomo anziano, sui settant’anni, forse più. Non mi ha chiesto mai niente, né ho colto mai sul suo viso una qualche ombra di paura. Era di grande dolcezza e di grande gentilezza. Veniva a lavorare un orticello, in cui coltivava soprattutto patate, e ogni tanto anch’io gli ho dato una mano a zappare. Verso l’una ci mettevamo seduti sotto la tettoia attorno al breve focolare, a fianco della capanna, e mangiavamo, quasi sempre patate. Era un mangiare molto sobrio. Il vecchio contadino riprendeva poi il suo lavoro fino alle cinque, quando tornava a Pedace. Quello era per me il momento della malinconia, quando lo vedevo andar via a cavallo del suo asinello. Restavo solo.

Come ti preparavi a trascorrere la notte?

Andavo a una fonte vicina a prendere l’acqua, mi preparavo un po’ di cibo (un uovo, altre patate, un po’ di formaggio) e poi veniva il buio. Non avevo luci o candele. Andavo a letto molto presto, cercando, prima, di scaldare la capanna accendendo il fuoco al suo interno. E il fuoco andava acceso anche perché il soppalco era pieno di grossi topi, che facevano un baccano infernale, e a volte salivano anche sul letto. Accendere il fuoco provocava il loro silenzio. Dovevo allora avvicinarmi al sonno abbastanza rapidamente, spegnere il fuoco e addormentarmi prima che ricominciassi a sentire i topi.

Questa capanna aveva finestre o fessure, o solo la porta?

Solo la porta. E questo era un altro problema: da una parte dovevo aprirla perché si soffocava per il fumo, ma chiuderla prima di addormentarmi, perché la notte faceva assai freddo.

Quanto tempo sei rimasto in queste condizioni?

Tre mesi. Ma il mio soggiorno fu alleviato anche da qualche piccolo conforto. Prima mi portarono un libro di Salvemini, forse la sua storia della Rivoluzione francese, poi una vecchia edizione del Capitale (il primo libro), che ho letto in quel periodo per la prima volta. Durante la giornata facevo delle passeggiate, letture all’aperto (i libri che ho citato, e anche qualche testo di storia calabrese)

Facevi degli incontri, in queste camminate?

Sì, incontravo spesso un pastore di capre, molto simpatico, che pur non sapendo nulla della mia attività politica, capiva che stavo lì nascosto. (La spiegazione ufficiale era sempre quella dello studente che aveva un esaurimento nervoso). Ogni tanto il pastore di capre veniva alla capanna, mangiava con noi. Ricordo di aver fatto con lui delle conversazioni molto simpatiche: le potrei chiamare ragionamenti sulle cose del mondo. A liberazione avvenuta, l’ho rincontrato nelle mie visite a Pedace. Lui mi chiamava sempre Guido, il mio nome della clandestinità.

Un altro nome falso, oltre a quello che avevi sui documenti?

Sì, in quella clandestinità avevo tre nomi: quello scritto sulla tessera falsa, da mostrare eventualmente alla polizia, e quello, pure falso, che usavo nella vita quotidiana. E infine quello vero, conosciuto da alcuni compagni soltanto. C’erano regole ferree.

E’ in ricordo di questo tuo nome usato nella clandestinità che uno dei tuoi figli si chiama Guido?

Sì, è proprio così.

Con il pastore di Pedace parlavate in italiano? Parlava italiano?

No, parlava in purissimo dialetto, come molti allora. Ma io capivo bene, non era molto diverso, come gli altri dialetti meridionali, dal dialetto del mio paese. Si parlava di amori, donne, avventure, opinioni varie sul mondo. Il vecchietto era molto silenzioso, gentile. Il pastore, invece, molto più estroverso.
Grazie ad Andretti, furono organizzati anche incontri con gruppi di compagni, quattro o cinque volte, forse più, nel bosco, a scopo formativo, e naturalmente discutevamo sulla guerra e sulle nostre idee e speranze per il dopo. Venivano da Cosenza, per lo più. Alcuni già li conoscevo (i Burza, Bebè Cannataro, ad esempio), altri non li avevo mai visti. Parlavamo – mentre alcuni stavano di guardia. E anche si discuteva sul comunismo, sull’Unione Sovietica. Ma soprattutto sulla guerra, sulla cospirazione, su che sarebbe stata l’Italia, e quelle terre del Sud. Non ricordo bene se discutemmo anche di riforma agraria: dopo pochi mesi il cosentino Gullo sarebbe diventato ministro dell’Agricoltura..

Dopo questo lungo periodo hai lasciato anche le campagne di Pedace.

Sì, si ripeterono gli allarmi, bisognava cambiare, lasciare quella situazione anche dura, ma in cui era così palpabile e toccante la solidarietà, forte e tipica dei calabresi. Sono tornato a Cosenza, in un appartamento completamente vuoto: non ho mai capito cosa pensassero quelli di sotto, sentendomi camminare. E’ stato il periodo in cui sono stato meglio, per tanti versi, ma lo ricordo anche come un periodo di grande noia. Anche lì ho avuto dei libri. E mi portava da mangiare Ciccio Andretti: erano dei pranzi favolosi, fatti a volte persino di timballi di pastasciutta, salsicce, soppressate, vino. E si era in piena guerra, in tempi di assoluta, aspra carestia.
Andretti ebbe la gentilezza persino di accompagnarmi, una volta, in una casa di tolleranza, supponendo non a torto che da tantissimo tempo non avessi avuto possibilità di frequentare una donna. Mi ricordo quel luogo come una casa da romanzo: fuori dalla città, con le persiane tutte chiuse. La cosa in sé è stata, come sempre in questi casi, troppo breve: resti col fiato mozzato e l’amaro in bocca. Uscimmo subito, e non solo perché ci poteva essere un qualche rischio.

E’ in questo secondo periodo cosentino che hai incontrato Fausto Gullo?

Sì, ci siamo incontrati in un appartamento di Cosenza, abbiamo parlato, c’era la sensazione che il regime si stesse sfaldando. Ne ricavai subito l’impressione che poi sarebbe stata confermata dagli incontri successivi, dopo la Liberazione: un gran signore, grande civiltà, simpaticissimo. Però con lui non scambiai allora nessuna informazione vera, sul partito, sulla sua rete, ecc. Fu un incontro di solidarietà politica, di comunanza di fede.

Quando avvenne questo incontro?

Verso la fine del mio soggiorno. A metà maggio fui infatti richiamato a Milano dal partito, per essere dislocato nel lavoro attivo. Il partito fece pervenire (non so per quali vie) un messaggio di questo tipo ad Andretti. Ai primi di giugno mi rimisi in viaggio, risalendo la penisola. Questa volta, per non passare vicino a Lenola, feci l’Adriatica. Mi ero anche fatto crescere i baffi. Ricordo che dovetti sostare qualche ora a Foggia, una città già colpita dai bombardamenti. Allora conoscevo quasi nulla dell’Italia; mi pare non sapessi nemmeno che ero nella terra di Di Vittorio. Furono ore tristi, girare in quella città che portava nell’aria la tragedia della guerra. Arrivai, dopo un lungo viaggio, a Milano. Non immaginavo che eravamo prossimi al 25 luglio.

Tornando alla Calabria: che impressione hai avuto allora, attraverso questa molteplicità di contatti, della società calabrese? Ti è sembrato un mondo “diverso”? Hai avuto anche tu – come Levi – la sensazione che Cristo si fosse “fermato a Eboli”?

Niente di tutto questo, anch’io venivo, prima che da Roma e da Milano, dalla campagna, da un paese in fondo meridionale. E Cosenza era una vera e propria città, una bella città! Non solo Cosenza vecchia, che avrei conosciuto più tardi, ma la parte nuova, in pianura. Ricordo la stazione, i giardini, la strada grande. Si sentiva che aveva alle spalle una ricchezza di storia. Non ho mai avuto la sensazione di un Mezzogiorno estraneo, ma di un luogo già seminato, segnato da lotte, sedimentato.

Dopo la guerra sei tornato spesso in Calabria e, se non sbaglio, sei anche stato deputato calabrese?

Sì, al primo inizio degli anni settanta. Ho mantenuto negli anni un contatto con la Calabria, in primo luogo un contatto sentimentale. Sono tornato tante volte, in particolare a Cosenza e in tutto il Cosentino, a Pedace. Negli anni sessanta era prima Alicata a seguire questa regione, nel Pci. Poi iniziai ad andare io in Calabria, per incarico del partito: riunioni che duravano una infinità, a volte fino a metà notte. Successivamente, all’inizio degli anni settanta, sono stato impegnato dalla vicenda dei “boia chi molla”, a Reggio. Sono stato il primo compagno a fare un comizio in piazza a Reggio, dopo la rivolta egemonizzata dai fascisti, nel mese di luglio. Non era la prima volta che parlavo a Reggio, ma quel comizio m’è fisso in mente: un comizio tempestoso. Rimasi a lungo a Reggio, in quel difficile 1970. E anche a Catanzaro, dove c’era la direzione regionale del Pci. E poi fui eletto nella legislatura 1972-1976 in Calabria. Puoi ben capire dunque che ho girato molto tutta la regione. Ho avuto un rapporto forte con tanti compagni.

Che ricordo hai della politica, delle lotte, del Pci, in Calabria?

A dire il vero, il mio ricordo è abbastanza “classico”: il grande peso della questione delle campagne, della terra. Discutevo, con Giovanni Lamanna, se la strada della modernizzazione passava per l’industrializzazione o per la riforma agraria. Il Pci calabrese era molto imbevuto della questione contadina. Era un partito che rifletteva quella terra, una Italia di grandi passioni. Si litigava molto, nei Comitati regionali, nei Comitati federali. A volte facevamo comizi affollatissimi ed entusiasti, ma poi al momento del voto il risultato era sempre un po’ al di sotto delle previsioni. Soprattutto a Reggio. Cosenza o Crotone erano tutt’altra cosa, c’era una tradizione forte, radicata, socialista e comunista. Crotone era una città rossa. Fra tutte, la città che mi piaceva di più era Cosenza, forse anche per i ricordi legati al passato, ai tempi della latitanza. E a Cosenza c’era anche una proiezione più immediata delle vicende politiche nazionali, era la città non solo dei Mancini, ma anche di Riccardo Misasi, esponente di quella sinistra democristiana che a lungo mi ha interessato, tra fine anni cinquanta e inizio anni sessanta. A Cosenza sentivo il sedimento di una lunga storia, un nesso forte con la vicenda nazionale. E poi ad un passo la dolcezza della Presila: forse perché lì avevo conosciuto per primo il vivere strano della clandestinità E In questa situazione, già ricca, è poi intervenuta l’Università della Calabria, un momento ulteriore di sviluppo, di raccolta di forze intellettuali.

Cosa ti è rimasto della Calabria, dentro?

Il passaggio in Calabria è stato, nella mia formazione, un momento costitutivo. Un’esperienza importante, uno dei punti positivi – posso dire – nel bilancio della mia vita. Mi è rimasto dentro quel paesaggio, anche quelle ore di solitudine, nelle campagne di Pedace. E se qualcuno mi chiedesse: qual è la persona migliore che hai conosciuto, in vita tua, io direi: il padre di Cesare Curcio, quel vecchietto dolce, che resta per me legato a un’idea di generosità che, per giunta a uno sconosciuto calato in quelle campagne da chissà dove, dava tutto senza chiedere nulla.

22/10/2006
Guido Liguori