IL MATERIALE E L'IMMAGINARIO NELLA CULTURA DEL MARCHESATO CROTONESE

Manifesto per una nuova Calabria

Condividi

[2/3/2008]

Ho vissuto la notizia del terribile eccidio di Duisburg con un senso di dolore e di rabbia, di sofferenza e di impotenza. Come tanti altri calabresi. Mi sono trovato a pensare alle “povere vittime”, ai “poveri calabresi”, ai “poveri emigrati in Germania”, ai “poveri abitanti” di S. Luca. Al povero Corrado Alvaro, uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, il cui nome, dimenticato in altre circostanze, viene scoperto, citato a sproposito, in queste dolorose occasioni. Ci siamo sentito più poveri, privati della nostra migliore tradizione, delle nostre speranze. La ricchezza, procurata con la violenza, genera povertà morale e culturale, degrado sociale. Su questo giornale avevo appena pubblicato un articolo in cui, descrivendo la situazione dolorosa e sfarinata che vive la Calabria, segnalavo la tendenza autodistruttiva che si va affermando da noi, una sorta di maledizione a fare male e a farci male, a divorarci, in un’atmosfera cupa con le tenebre che trionfano sulla luce, Persefone su Demetra. Da Duisburg giungeva la conferma dolorosa, assurda, tragica di una deriva morale, politica che colpisce tutti.

  1. Luca è un paese metafora della regione, dei suoi contrasti, delle sue luci e delle sue ombre. E’ un luogo dell’anima. Ho conosciuto, da giovane, questo paese, l’Aspromonte, Polsi attraverso la lettura di Alvaro. Poi, a partire dal 1977, ho visto e rivisto, visitato questi luoghi centinaia di volte. In occasione della festa della Madonna, di convegni, di iniziative culturali. Ne ho scritto, ho realizzato documentari, li ho percorsi a piedi, camminando religiosamente come insegnava Alvaro. Sarei insincero se non dicessi che questi luoghi splendidi e incantevoli mi hanno in alcune circostanze provocato apprensione e disagio, non sarei autentico se dimenticassi problemi e immagini negative e anche la difficoltà a comprenderli, ma posso, senza ombra di dubbio affermare, che i costi maggiori di un’oppressione voluta da pochi li pagano quegli abitanti di S. Luca che, pure in un clima di paura, non hanno rinunciato alla loro tradizione di accoglienza, e hanno fatto di tutto per offrire un’altra immagine del loro paese, a partire anche dalla loro più grande risorsa: Corrado Alvaro e l’universo da lui raccontato, a cominciare dalla Montagna e dalle fiumare.
    Dopo lo sgomento e lo smarrimento iniziale, giunge il tempo della riflessione e della difficile e ineludibile domanda: che fare? Quanto scriverò è frutto di disagio e di voglia di capire insieme agli altri; non ho certezze e non ho ricette, soltanto desiderio di partecipare a un progetto comune di ricostruzione. Se muore S. Luca muore tutta la Calabria. Sono queste le occasioni in cui bisogna essere veri, sinceri, magari scomodi.
    Accanto a qualche articolo attento e rispettoso e a reportages intelligenti e non scontati, a considerazioni condivisibili, ho registrato spesso, sui giornali, la scoperta dell’acqua calda (gli ‘ndranghetisti non sono poveri, ma sono ricchissimi), la ripetizione di antichi luoghi comuni e l’invenzione di nuove approssimazioni e generalizzazioni. Il tentativo di spiegare si è tradotto almeno in due (con tante sfumature intermedie) teorie o retoriche o narrazioni mitiche. Una potremmo chiamarla: “l’uso della tradizione ad uso esterno”; l’altra: “l’uso della modernità ad uso interno”.
    Secondo la prima narrazione, la faida di S. Luca, pure legata ad interessi economici illegali e al controllo del territorio e anche degli investimenti miliardari in Europa e in altre parti del mondo, in definitiva non sarebbe altro che una manifestazione di quell’atavismo, di quell’arcaicità che regnerebbero in Calabria. Questa spiegazione di tipo culturale fa riferimento all’ideologia del sangue, al valore delle vendetta e dell’onore, alla particolare struttura familiare degli ‘ndranghetisti, alla loro capacità di mettere in atto comportamenti e di individuare tempi simbolici, come quelli della festa. Questa spiegazione chiama in causa la potenza e la forza di quella che genericamente viene chiamata “tradizione”. Non sarò certo io (non soltanto in quanto antropologo, ma anche in quanto “narratore” e abitante di questi luoghi) a negare l’incidenza della tradizione, la potenza del passato e della memoria, il perpetuarsi di modelli e valori tradizionali anche nel presente. Non siamo lontani dal paradigma lombrosiano del meridionale naturalmente criminale, con una religiosità barbarica, incline a delinquere e compiere atti cruenti.
    L’individuazione di una sorta di “cultura maledetta”, che rinnova la teoria della “razza maledetta” di Niceforo (alimentata di recente al Nord, come avevo scritto ne La razza maledetta nel 1993), nella sua schematica banalità, ha qualcosa di consolatorio e di rassicurante per gli osservatori esterni. Non richiede molti sforzi interpretativi.
    La Calabria viene considerata naturalmente e culturalmente irrecuperabile e immodificabile, con il corollario che tanto vale trattarla come problema criminale e tenerla lontana dall’Europa dove non sarebbe degna di entrare. Paradossalmente la tradizione non viene invocata dai locali, ma dai forestieri ed è comoda perché relega la regione fuori dalla storia e dal mondo “civile” e “moderno”. Questa concezione non si accorge che il mondo agropastorale è scomparso (Alvaro, inopportunamente citato anche senza essere stato letto, lo aveva chiarito già alla fine degli anni venti del Novecento), la famiglia tradizionale si è erosa, le comunità si sono dilatate, disgregate, trasferite altrove e il mondo esterno è arrivato anche nelle più piccole e anguste comunità.
    Il lato perverso di questa teoria è che genera (lo aveva ricordato un secolo fa Napoleone Colajanni) anche nei locali sfiducia, pessimismo, rassegnazione, lamentela; postula l’impossibilità del cambiamento e quindi l’inutilità dell’agire e del fare. L’essere (immutabile e astorico) prevale sul fare e quindi nasconde la via del mutamento. C’è ancora un esito più perverso: quello dei calabresi, che si sentono assediati e incompresi, abbandonati e denigrati, ed elaborano una cultura della lamentela, una difesa di ufficio di tutti i loro comportamenti, in altre parole una sorta di razzismo alla rovescia, una calabresità angusta ed enfatica, per cui tutti i mali vengono attribuiti agli altri, ai forestieri, allo Stato. La responsabilità non è mai “nostra”, ma degli altri, di qualcuno che ci perseguita, che non ci capisce o non ci aiuta a sufficienza.
    In anni recenti anche ad opera di élite e di studiosi locali la tradizione (assunta in maniera mummificata e granitica) è stata oggetto di mitizzazioni e di letture edulcorate e neoromantiche. Qualcuno è arrivato addirittura ad evidenziare gli aspetti popolari della ‘ndrangheta e ad elogiarne gli aspetti positivi o oppositivi. Qualcuno ha scherzato col fuoco, giocando con le parole dalle sue comode stanze e dai suoi salotti. Qualcuno ha confuso ribellismo, opposizione popolare allo straniero, brigantaggio e ‘ndrangheta. Non possiamo permetterci questi equivoci. I tedeschi sono oggi spaventati e preoccupati della penetrazione criminale nelle loro città e nelle loro terre, ma la Germania è la nazione dove da anni vengono realizzate e vendute centinaia di migliaia di CD con canti e musiche “popolari” che elogiano o esaltano i sequestratori, i cavalieri spagnoli difensori degli oppressi, l’omertà, il valore dell’onore e della vendetta. Si piegano così (come scrivevo tanti anni fa su “Diario” e come ha scritto, di recente, Francesca Viscone in un suo libro) i valori di un’imprecisata ed astorica tradizione popolare (che peraltro non è detto che vada assunta sempre positivamente) all’ideologia’ndranghetista. Di recente è stato realizzato anche un filmato in cui vengono esaltati presunti valori antagonisti e oppositivi della vecchia ‘ndrangheta (quali?). Mi è stato riferito che questo prodotto è stato ufficialmente presentato a Cosenza alla festa provinciale di un partito della sinistra radicale. Spero che si tratti di un equivoco, di un malinteso, di una notizia non veritiera.
    Siamo giunti alla teoria, complementare e, in parte, di segno opposto a quella appena delineata della narrazione moderna e modernista della “faida”. Certi comportamenti non avrebbero tanto a che fare con i valori e con la tradizione, con i sentimenti (sia pure negativi) ma sarebbero, come sostengono in molti, l’esito di una capacità della ‘ndrangheta di modernizzarsi, di inserirsi all’interno delle istituzioni e delle banche, di creare economia anche “legale”. Sulla grande holding criminale il giudice Nicola Gratteri e Antonio Nicaso hanno fornito dati e documenti che confermano questa ipotesi. Il problema, però, non è negare la capacità affaristica e la penetrazione globale delle mafie, ma segnalare, come questa realtà, che non può essere confutata, viene assunta dai locali (soprattutto dai politici) come una sorta di assoluzione e viene esibita con un atteggiamento quasi consolatorio. L’evidenza che la ‘ndrangheta non riguarda soltanto la Calabria, è diffusa dappertutto, ha ramificazioni in tutto il mondo, controlla economie legali ed illegali, si afferma con la violenza dovunque ha suoi interessi, si traduce, non tanto in un’assunzione di responsabilità, ma nella conclusione che il problema riguarda tutti (la Calabria, l’Italia, l’Europa). Mal comune mezzo gaudio, la ‘ndrangheta è dappertutto, quindi non è un problema nostro. E’ ovvio che la ‘ndrangheta può essere contrastata agendo e intervenendo soltanto a S. Luca e nei tanti centri “governati” da potenti famiglie criminali. Bisogna andare nei palazzi, nelle banche, nelle grandi città. Questo dato non dovrebbe portare a negare l’origine e la peculiarità della ‘ndrangheta. Piaccia o no, essa, come tanti prodotti alimentari, è un “prodotto locale”. Se mai, dovremmo chiederci perché mai è l’unico prodotto capace ad espandersi globalmente, mentre le risorse positive della regione vengono sciupate. Probabilmente è proprio l’espansione criminale, unitamente alla mancanza di un élite economica pulita e di una politica con una morale, a fare sì che le vere risorse calabresi rimangano inutilizzate. Anche con disagio di quei luoghi dove si crea l’illusione di un arricchimento facile, che poi porta lutto, dolore, sofferenza.
    La ‘ndrangheta si è estesa in tutto il mondo, ma resta un prodotto storico della nostra terra, è un nostro problema, la nostra palla al piede, la nostra sventura che gli altri non sono disponibile a condividere con noi. Spetta a noi liberarcene, certo non da soli, certo non senza la presenza dello Stato. Discutere su quanti quintali di tradizione e quanti quintali di modernizzazione violenta concorrano a formare il mix criminale è operazione utile per capire, ma sterile se ci si ferma a questo livello di discussione. Inconcludente se ostacola azioni concrete (legali, repressive, culturali, religiose) di contrasto che vanno elaborati e inventati qui ed ora. Senza indugiare.
    L’identità è quella che si costruisce oggi e i materiali sono quelli che noi sappiamo scegliere e utilizzare. Non tutti quelli che arrivano dal passato sono validi e utili e nemmeno quelli della globalizzazione debbono essere acquisiti acriticamente.
    Se le analisi sono difficili, problematiche, complesse, ancora più ardue sono le proposte, più difficoltose le vie di uscita da questa situazione che rischia di fare restare ai margini per decenni la nostra regione. Si è letto di tutto sui giornali in questi giorni. Si è invocata la presenza dello Stato, la modifica del codice di procedura penale, una legislazione straordinaria, un’azione di intelligence, di prevenzione e di polizia, un rafforzamento, finalmente, della magistratura in prima linea. Ben vengano questi provvedimenti. Non si aspetta altro. E tuttavia penso che un’azione incentrata sull’opera di una legittima (e sempre rinviata) prevenzione e repressione non sia sufficiente, non basti. Personalità e commentatori più avvertiti hanno colto che la battaglia si gioca prevalentemente anche livello culturale, sul piano dei comportamenti etici, nella società e nelle comunità calabresi.
    Monsignor Bregantini, con coraggio e, mi pare (spero di sbagliarmi e di poter essere smentito), anche in profonda solitudine, ha individuato nei “sentimenti”, nelle “emozioni” di cui, nel bene e nel male, sono depositarie le donne, un punto su cui fare leva per interrompere la spirale dell’odio, della vendetta e di una cultura della morte. L’invito all’amore e al perdono è quanto di più bello possa fare un pastore che vive con sofferenza la sua missione (ed è bello ascoltare che qualche familiare delle vittime non resta indifferente a questo nobile invito); tuttavia non penso che le donne (spesso coinvolte in prima persona nella gestione di affari di famiglia) possono da sole spezzare una cultura e una mentalità, prevalentemente maschili, a cui sono state “educate” fin da bambine. L’utopia e la speranza del vescovo hanno però il merito di segnalare che il problema è di ordine culturale, e che bisogna smuovere le coscienze, mutare le mentalità, abbandonare “tradizioni” inutili e dannose, inventare nuove pratiche di stare assieme.
    Per queste considerazioni trovo abbastanza estemporanee le proposte di qualche intellettuale, anche con importanti ruoli istituzionali, che invece di puntare in maniera più convinta e magari innovativa sulla cultura chiede un intervento di ministri e di uomini politici a S. Luca e l’invito ad interventi strutturali, urbanistici, di risanamento. Non credo all’utilità delle passarelle fine a se stesse, alle iniziative antimafia di una mezza giornata (caldeggiate, come si ascolta in qualche intercettazione, dagli stessi ‘ndranghetisti) e credo che il risanamento urbanistico di S. Luca debba rientrare in un generale progetto di ricostruzione delle zone interne, della montagna e del paesaggio deturpato e incompiuto e non rientrare in una logica di intervento eccezionale, che paradossalmente potrebbe finire col fare gli interessi delle stesse ricchissime famiglie locali.
    La Fondazione Corrado Alvaro ha compiuto tante opere di qualità e portato avanti iniziative meritorie, molti suoi membri di S. Luca hanno operato con passione, entusiasmo, abnegazione, anche per costruire un’altra immagine della loro comunità. Bisogna continuare sulla via della cultura, se mai si tratta di aggiustare il tiro, magari percorrendo, con maggiore fantasia, altre strade.
    Forse è il caso, invece di invocare (in maniera comprensibile) interventi dall’alto, di domandarsi se non sia bene ripartire dal basso; forse invece di assegnare premi a scrittori e studiosi già noti (la Calabria ha anche un’abbondanza di premi inutili e di manifestazioni ripetitive e, spesso, di bassa qualità) sarebbe meglio incoraggiare le nuove intellettualità del luogo.
    In Calabria non bisogna abbandonare la via della cultura, ma intraprenderla con convinzione e in maniera innovativa, se mai rinunciando a iniziative effimere, che nulla modificano, e creare strutture culturali stabili di intervento e di mutamento, che modifichino, migliorandola, la qualità della vita delle persone. Le pagine di Alvaro sull’incompiutezza, sulla discesa delle popolazioni lungo le coste, sul complesso rapporto tradizione-modernità, sulla polarità tra mondo dei padri e mondo moderno vadano lette e meditate in tutte le scuole. E così tante pagine di Strati, Seminara, Lacava, Montalto, Asprea e altri scrittori.
    Non basta, tuttavia Forse sarebbe opportuno fare leggere Gomorra di Saviano o, anche, come ricorda lo stesso scrittore, gli studiosi meridionalisti e anche tanti nuovi scrittori calabresi e meridionali e tanta letteratura europea contemporanea. Dovremmo attenuare l’esasperata tendenza all’autosservazione e all’autocompiacimento e aprirci allo sguardo degli altri, agli scrittori, ai musicisti, agli artisti europei e del mondo. Non rinunciare certo alla memoria e alla propria storia, ma non mummificarle, contaminarle, rinnovarle, farle dialogare con culture e produzioni di altri luoghi e di altri contesti. Si premino o si offrano soggiorni a grandi scrittori e saggisti che mostrino desiderio di passare parte del loro tempo nelle nostre comunità per poi raccontarcele, descrivercele, farci capire qualcosa che, forse, noi non possiamo o non vogliamo vedere. Liberiamoci dalla paura dello sguardo di chi viene da fuori, dalla sindrome degli assediati.
    La Regione dovrebbe fare un’opera capillare, incisiva, continuata nelle scuole. Fulvio Librandi ha più volte suggerito, anche su questo giornale, l’idea di un “Museo della ‘ndrangheta”, un centro permanente espositivo e di studi, che racconti la storia devastante e luttuosa di questa organizzazione, e che promuova iniziative ed elabori conoscenza. Chiedo al Presidente della Giunta Regionale e all’Assessore alla Pubblica Istruzione di prendere in seria considerazione questa proposta, di valutarla, di ragionarci.
    Le stesse Università dovrebbero sentirsi anche università dei paesi e delle comunità calabresi; dovrebbero mirare a una migliore conoscenza del territorio, piantare germi di mutamento. Propongo al Rettore della mia Università, Giovanni Latorre, e al Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, Raffaele Perrelli, di farsi promotori con altri presidi e con altre facoltà e università di un “Centro interdipartimentale sulla ndrangheta e sulla legalità”, con borse di studio e fondi per dottorati di ricerca su queste tematiche. Vanno incoraggiate una seria e mirata sociologia e antropologia delle nuove relazioni, dei nuovi modelli (non solo economiche) ‘ndranghetisti e dell’affermarsi della criminalità fuori dal contesto di origine. Si pensi anche a una laurea specialistica (ne esistono tante inutili) sulla storia e sull’antropologia della ‘ndrangheta; si chiamino ad insegnare esperti, magistrati, sociologi, antropologi, economisti, urbanisti, letterati, psicologi, pedagoghi, storici, studiosi del diritto e si formino giovani docenti da inviare a insegnare nelle scuole elementari e superiori una materia sulla legalità da rendere obbligatoria. Si tagliano nelle scuole le spese inutili per i soliti corsi e corsetti di formazione (sprechi inutili) e si punti a dei corsi di una nuova “educazione civica” che costituiscano materie di esami e anche credito formativo per la maturità e l’università.

Il problema, però, è culturale, in un senso più radicale e profondo. E’ culturale in accezione antropologica. Il degrado e la violenza non riguardano solo le ndranghete, ma sono inscritte ormai nel tessuto sociale e politico della regione. Carmine Donzelli ha ricordato (in una trasmissione radiofonica) che non dobbiamo immaginare che esista una separazione netta tra chi compie atti criminali e il resto della società. Finché, dice Donzelli, “il nucleo del modello di relazione parentale-clientelare rimane il centro e il cuore della politica calabrese, così come praticata da tutti i grandi partiti, ci sarà una responsabilità enorme”.
Condivido pienamente. Da tempo, anche su questo giornale, in maniera ripetitiva e monotona, vado sostenendo che i comportamenti familistici e illegali di tanti strati della società calabrese (non solo della ‘ndrangheta) trovano un’indiretta legittimazione, una sponda inattesa, nelle pratiche familistiche, amorali, immorali della politica.
La faida di S. Luca ha esiti drammatici e provoca morti e lutti, ma è sotto gli occhi di tutti che le “faide” politiche, di cui abbiamo quotidiana notizia sui giornali, alla lunga provocano danni e guasti ugualmente devastanti. Litigi, vendette, ostracismo da parte dei politici nei confronti di quanti non dicono signorsì o non sono funzionali ai loro progetti, dei non parenti e dei non schierati, non sono un buon modello da additare a quei ragazzi che poi dovremmo educare alla legalità, mostrando loro la via senza uscita della scelta criminale.
Anche importanti uomini di governo hanno giustamente invocato un’inversione di tendenza nelle indagini e nella repressione, nella lotta alla criminalità e un salto di qualità, una sorta di scatto di orgoglio. Il problema da affrontare, però, non è solo di ordine pubblico o quello di colpire i ricchi che fingono di essere poveri. Il problema è quello di aiutare l’altra S. Luca, di riscoprire di nuovo un Meridione (da non ridurre a questione criminale e di ordine pubblico). L’intervento va condotto, contemporaneamente, e a più livelli. L’altro problema è che questo scatto di orgoglio e questa inversione di tendenza vengono sempre richiesti agli altri e quando ci si vede con l’acqua alla gola. Dall’alto della loro posizione politica e di governo, alcune figure prestigiose, su cui abbiamo riposto anche molte speranze, non possono non vedere e non dire all’area politica di riferimento che le cose debbono cambiare, non possono non pretendere l’abbandono di logiche e di pratiche che mortificano la Calabria e la mettono sempre sotto osservazione, facendola diventare un’ossessione per i politici nazionali, che non si rendono conto del dramma che vive la regione, che magari sanno tutte le nefandezze dei loro referenti locali e non riescono a smuoverli per qualche gioco di potere. C’è da chiedersi se tante mediazioni in basso, tante lotte intestine, tanto tempo sprecato per aggiustare e accontentare, di fatto non finiscono con il favorire la ‘ndrangheta, con il renderla soggetto intraprendente, lungimirante, incontrollata o anche protagonista.
L’emergenza in Calabria è quotidiana. Si facciano grandi scelte, coraggiose, mirate, di tipo generale.
Ognuno deve partire dalle proprie responsabilità, dalla “parrocchia” o dal partito o dalla casta di appartenenza senza pretendere di salvare il “noi”, di chiamarsi fuori. E’ legittimo, certo, attendersi uno scatto di orgoglio, un sussulto di responsabilità, un atto di coraggio dagli intellettuali, dalla Chiesa, dai giovani, dagli imprenditori, dagli operatori culturali. Ma è dovere di chi ha scelto di servire lo Stato e di chi ha deciso di governare e di gestire la cosa pubblica battere un colpo per primo. La politica (se esiste ancora nella sua versione nobile) faccia vedere che è in grado di governare questa regione, che è interessata quotidianamente alla sua immagine e a al suo destino; mostri che non vuole più soffocare come un tappo asfissiante tante energie, che restano deluse e si allontanano, liberi tante potenzialità, offra un’idea generale della regione, si dia davvero un codice etico, allontani indagati e condannati, non presenti furbescamente come nuove facce vecchissimi e anche stimabili protagonisti, cerchi consensi al di fuori dai soliti noti, investi su persone libere, competenti e non accondiscendenti, non abbia paura di perdere posizioni di potere e di rendita, sappia progettare, con il concorso della tante intelligenze, i fondi strutturali, pensando al bene comune e a una regione europea. Dia speranza. Parli il linguaggio della verità e non della furbizia. La Calabria non può più aspettare.

Vito Teti è Professore di Etnologia all’UNICAl