Il figlio
Un giovane, dopo anni di lontananza, ritorna ella terra d’origine dove ancora vivono i suoi genitori; ritrova così la vecchia casa che lo ha visto nascere e crescere, la campagna dove ha trascorso gli anni della fanciullezza, il mondo di immagini e di affetti che costituiscono il suo patrimonio di memoria. Ma qualcosa in lui è cambiato, facendolo diverso da quello che era prima di partire: infatti pur provando all’inizio un moto di affettuosa attrazione verso quel mondo di uomini e cose immerso in una immobilità senza tempo, finisce poi per sentirsene ormai definitivamente distaccato. E il sapere che la ragazza da lui amata si è sposata con un altro, non è che l’occasione che gli fa prendere coscienza di tale distacco.
Questo,in sintesi, il fatto narrato nel racconto “Il figlio” di Antonio Altomonte, i cui significati sono vanno ben al di là della vicenda in sé e per sé: in fondo, in senso di estraneità che Michele- questo è il nome del “figlio”- prova verso quel mondo ritrovato e subito perduto, è lo stesso di quello avvertito da tutti gli “emigrati” che, ritornando nella terra d’origine, si rendono conto che per essa provano affettuosa nostalgia ma non certo rimpianto. E questo perché hanno ormai acquisito una mentalità, delle abitudini e delle prospettive di vita che poco o nulla hanno in comune con tutto quello che un giorno hanno lasciato per andare alla ricerca di un diverso avvenire: e, giusto o sbagliato che sia, questo avvenire se lo sono guadagnati con il sudore, per cui il sentirsi ormai sostanzialmente estranei al mondo d’origine è la conferma che un mondo diverso di vivere non era né un miraggio irraggiungibile né un’assurda aspirazione, ma solo un diritto da acquistare.
Pertanto- e cioè visto che essi sentono di non appartenere più, se non come dato anagrafico, alla terra e alla cultura che li hanno generati.
Sulla strada di casa Michele avvertiva, in accordo con lo sguardo che ripassava particolari già quasi dimenticati, il dialetto piano, semplice, dei sensi a colloquio coi luoghi da cui per tanto tempo era rimasto lontano.
Si trovò nella scorza rugosa e scura dell’olmo, quando le sue braccia di ragazzo non ne circondavano per intero il tronco, nelle cacce ai nidi tra le fronde: e fu come l’inizio di una lunga storia tra lui e gli orti, che erano tanti capitoli di geometria piana, dove un rettangolo di lattughe si distingueva, nitidamente verde, da un quadrato di terra rivoltata da poco, e approntata alla semina.
Poi, oltrepassata la curva a gomito, alzò gli occhi e vide il vecchio attraversare l’aia, la schiena curva piantata sul tronco coperto scoperto da una camiciola, terrosa da fare tutt’uno col corpo. C’era anche una donna, seduta all’ombra della casa che dava sull’aia, e rivolgeva in quel momento la parola al suo uomo, che veniva chinandosi per terra, a prendere con le mani il letame da buttare nei solchi. Michele gridò:
“Pa’.” Ma il richiamo, formulato a quel modo, suonò falso, forestiero, come quello di un clacson per una strada di campagna. E si corresse:“ Padre! Padre!”.
Passò. I genitori ricevettero l’abbraccio di Michele, ed egli, dentro casa, ritrovò l’ordine di sempre fra i mobili dal volto legnoso e cordiale, della stessa famiglia della madre.
“ Avrai fame “disse la donna, subito accingendosi, senza attendere una risposta, ad apparecchiare. Sedeva poco dopo a vedere il figlio mangiare, e a lui sembrò veramente che in quella posa fosse aggiunta ai mobili, ne costituisse un pezzo. Sentiva il respiro delle cose; invadeva la sera ed ognuna se ne stava al proprio posto, dov’era sempre stata dalla fanciullezza di Michele, come vi avesse messo radici. Nella prima, tenuissima ombra che saliva dai campi, scalando la alture boscose, assumevano un profilo nuovo, incerto, e quasi più intimo.
Sapevano di una familiarità antica, di una vita d’insieme cui contribuissero tutte in egual misura, in virtù di una legge di affinità, e a momenti di consanguineità, dove la madre avesse da chi sa che natura al comò. Di se stesso, ricordando qual era stato fino a qualche anno prima, in che relazione con quelle cose, Michele si accorse che in qualche parte del suo corpo, impossibile da localizzare, si rispolveravano dalla patina del tempo e dell’oblio vecchi vincoli, un’equivocabile attrazione: e si trovò portato come da una solidarietà carnale quanto lo circondava.
Era contento del suo ritorno, cominciò ed interrogare la madre su avvenimenti spiccioli circa il paese, i conoscenti, il lavoro dei campi, e fu quasi senza che nessuno dei due se ne accorgesse che il discorso cadde alla fine dov’era inevitabile. Michele rimase, col braccio che portava il cibo alla bocca, a mezz’aria.
“Quella lì…” disse la madre subito giudicando preferibile tacere, come per un accento imprudente.
“ Maria?” egli chiese.
“ Uh-uh” continuò malvolentieri. “ Si è sposata. No te l’avevamo fatto sapere?”.
Michele riprese a masticare con lentezza. Riandò con la mente alla nottata spesa in viaggio, e d’improvviso si sentì con le membra fiaccate dalla stanchezza. Entrò il padre. Vide la nota sagoma cercare la sua vecchia nell’ombra, e sedersi accanto. La madre disse:
“ Accendo il lume?”.
Michele la osservò alzarsi, tastare sul comò, portare il lume sul tavolo. “No” allora, disse, “fa caldo. E’ meglio non accendere.”
Rimase al buio. Ma ciascuno sapeva della presenza degli altri, e ne attendeva un segno, una parola. Dall’orto veniva, tagliando il silenzio, a scatti nervosi e veloci, il canto di un grillo.
“ Che fai”, disse il padre,“sei venuto per restarti?”
“No, qualche giorno appena. Mi dispiace.”
Il silenzio, per poco si ristabilì perfetto tra le persone. Fuori, il grillo cominciava a non esser più solo nel suo canto, ed il vento, che si era levato da alcuni minuti, entrava a folate nella finestra, smuovendo qualche calendario e immagine sacra alle pareti.
“ Scirocco” riprese Michele;“ si suda qui dentro”.
Si alzò in piedi, venendo fuori del tavolo ad addossarsi allo stipite della porta che dava sull’aia. La madre gli domandò se non voleva che gli portasse la sedia:
“S dovrebbe stare all’aperto”.
Egli non disse di no, e gli venne portata la sedia. I genitori adesso lo guardavano dal ventre del buio della stanza. Egli indossava una camicia a quadrettoni rossi e pantaloni alla moda. Loro erano il mondo del pesco che si piegava sulla casa come a protezione, delle piante varie nelle varie stagioni, dei vermi e delle lucertole che fissano con gli occhietti di spillo. Michele allungò le gambe, a appoggiarle su un gradino, ed anche dentro casa ci fu un movimento. Il padre aveva acceso il lume; lo levava all’altezza del capo, facendosi strada. Le ombre presero a ballonzolare per la stanza, ed il volto dell’uomo, vicino alla luce, era lucido, per un che di oleoso che dava alla pelle il sudore.
“ Vado un momento alla stalla”, disse, già sulla soglia, ignorando un lungo sguardo della moglie. Uscì. Il buio smussava nuovamente gli angoli delle cose.
Antonio Altomonte