Bifolchi, giumentieri, pastori, caprari e vaccari
da “Il Bruzio”
VI. Bifolchi, giumentieri, pastori, caprari e vaccari
Noi diciamo in Calabria jumentari e gualani a quelli che in Toscana si addimandano giumentieri e bifolchi; e, stante i ristretti termini in che l’industria equina è tra noi, pochi sono i giumentieri, ma più numerosi i bifolchi, e numerosissimi i pastori ed i vaccari. Il bifolco entra al servizio del massaro e del massarotto a patto di avere all’anno dieci tomoli di frumentone, e due di grano, cinque lire al mese, ed un paio di zanpitte o calandrelle. E’ la calandrella una foggia di calzare, fatto d’un limbello di cuoio bovino concio in allume, cui si è tolto il carniccio, e si è lasciato il pelo, e che messo sotto la pianta si lega sul dosso del piede con corde di lana, che dal greco Krokìs, ìdos si dicono crocili. ” ” La calandrella lascia nudo il calcagno; ed ogni altra specie di scarpa gli tornerebbe, non che inutile, molesta; perché, atteso il vivere nomade di nostre bestie boccine, il bifolco, che non ha provvisioni di foraggi, non trova miglior partito di pasturarle che di arrampicarsi sugli alberi, e scapitozzarli. Ed egli con l’aiuto delle calandrelle vi monta facilmente e passa da ramo a ramo, e sovente da albero ad albero: la quale abilità è veramente mirabile, ma torna a danno incalcolabile delle nostre selve, tra le quali il passaggio del bifolco è segnato da cadaveri. Tu trovi qui degli alberi altri sbacchiati e sbucciati, che miseramente abbiosciano, altri divettati, ed impediti di venire innanzi, altri scoronati e sfronzati per intero. Il bifolco non tocca vitto dal padrone; ma quando è mandato a lavorare per altrui, viene spesato da chi ne conduce l’opera.
Fra noi le greggi di capre e di pecore si danno a capo saldo, ma per lo più si associano. Ogni gregge si compone di 250 capi in su. Diciamo massaru il mandriano, curatulu il cascinaio, furisi i pastori ed i caprai, e capufurisi il vergaro. Diciamo anniglia la stroppella, sciamorta la sopranno, e pecora fatta la fattrice. Anniglia è vocabolo più bello di stroppella, e bisognerebbe introdurlo nel dizionario italiano; e del pari la cervella, la lastra, e la capra corrispondono all’italiano capretta, toriccia e capra.
Quando il gregge si dà a soccio pretto, il padrone non spesa i pastori, ma dà loro il viatico (mmiata, inviata) da Pasqua alla festa di S. Pietro in fave, olio, sale e polenta. Ma quando si dà, come diciam noi, metà a suolo, e metà a parte, il pastore riceve dal padrone da quattro a cinque tomoli di grano o frumentone, più o meno secondo i 1uoghi ed i patti, e cede a lui la metà di ciò che potrà spettargli dei frutti della mandria. Son frutti della mandria l’agnellatura, il latticinio, la lana e lo stallatico. Al dì festivo di S. Pietro si fa la massa delle spese in erbaggio, in viatico, e nelle tre scarnascialate di Natale, Carnovale e Pasqua, e, ristorate le spese, ciò che avanza del guadagno si divide in due parti, l’una delle quali cade al padrone, e l’altra al mandriano ed ai pastori, che se la compartiscono. Il padrone però ad ogni centinaio di stroppelle se ne preleva tre per carnaggio , e perdenza come diciam noi, per compenso, vale a dire, delle bestie che si smarrirono, o potevano smarrirsi, che furono divorate o poteano divorarsi dal lupo. I caci si dividono a metà; ma le ricotte cedono tutte ai pastori, salvo il dritto a1 padrone di averne una mancia due volte la settimana, e quello del cascinaio di fare dal prezzo delle ricotte una tolta di 12 centesimi ad ogni cacio per spese d’insalamento. I luoghi dove il bestiame s’aggreggia di notte o nel cattivo tempo sono l’ovile (garazza, sgarazzu, curtaglia), la steccata ch’è una palizzata di canne o sarmenti, o lentisco (interratu), e l’agghiaccio (mandrone). Lo stallatico vernotico che si fa nell’ovile, ed il primaverile in aprile e maggio appartiene al padrone: quello dello agghiaccio (notti e nuotti) si divide tra i pastori. L’ovile è un muricciuolo che corre parallelo ad una serie di stecconi confitti in terra, e che si curva a foggia d’un ferro di cavallo. Gli uni e l’altro sostengono il coperto, ch’è d’embrici, e sovente di frasche. Il muricciuolo è di creta, spesso secco con sola incalcinatura, ed alto un quattro palmi. L’agghiaccio non si cinge con funi, come usano in Toscana, ma con siepaglie mobili, che si portano da un punto ad un altro.
L’agghiaccio di cento pecore o capre si vende da 34 a 63 centesimi secondo i luoghi, e le stagioni; ed i padroni delle terre che si stabbiano, per avere maggior copia di pecorina, usano di lanciare in aria tizzi ardenti, che cadendo fra le tenebre sull’agghiaccio spaventano le pecore, che levansi in tumulto e fanno ciò che la paura suol produrre.
Le pecore si tosano tre volte all’anno, alla metà di marzo, a maggio ed a settembre. La prima tosatura che si fa sopra i soli gropponi dell’animale ci dà la lana subeglia, parola a cui manca la corrispondente nel vocabolario, le altre due la maggiatica e la settembrina. I pastori però le tosano per sé sotto le cosce, e di quell’esipo, che filano, fanno crocili per le loro calandrelle, e suste (tope) per gli asinai.
Il bestiame boccino si compone di vitelluzze, vitelle, vitellazze, jenche, vacche, vua e tauri, che corrispondono alle parole italiane vitella mongana, lattonza, birracchio, giovenca, vacca, bue e toro. Non si dà a soccio; il frutto è tutto del proprietario, e ciascun vaccaro ha per anno la mercede di L. 101. e 97 centesimi, e ‘1 capomandria (caporali) quella di 127 lire e 46 centesimi. Non si chiude dentro stalle, ma in parchi scoverti (cortina), ed emigra, al pari delle pecore e delle capre, dai monti al piano, e dal piano ai monti.
Questa pastorizia nomade è rovinosa. Le nostre terre abbondano, è vero, di erbe spontanee, tra le quali il loglio, il trifoglio, l’erbe mediche, e svariate ragioni di avena, di cicorie, di meliloti, di asfodilli e di amaranti; ma la scarsezza delle piogge autunnali leva il vitto alla pecora. Le cattive condizioni degli ovili e delle steccate, il difetto di buoni impatti, le fetide pozzanghere che ne fanno le veci, e le nevi e le serezzane delle lunghissime notti iemali intristiscono, ammorbano, uccidono le pecore, ne offendono il tessuto capillare; e di qui lane scarse, caprone, durissime al pettine. Il boldrone della migliore delle nostre pecore pesa meno d’un chilogramma; e quando si parla ai nostri Titiri di stalle speciali, secondo le stagioni, ariose, allegre, asciutte, e ben coperte, eglino rispondono: A piecura dice: Trippa china e malu riciettu. A capra dice: Menza trippa e buonu riciettu. Noi invidiamo loro la facoltà che hanno di conversare con le pecore e con le capre, e d’intenderne il linguaggio; ma pare che l’une e l’altre vogliano la pancia piena, ed il ricovero buono.
I nostri pastori sono ignoranti. Non separano in vasi diversi il latte munto nelle varie ore della giornata, per averne, secondo il più o meno di crema che contiene, varie qualità di formaggi: ignorano il lattometro per misurare i gradi dl calore richiesto dalla coagulazione; le forme che adoprano sono fiscelle di giunchi, non, come dovrebbero essere di legno o di coccio; e tutte queste cose unite ai pessimi gagli, alla sporchezza dei vasi, alla luridezza degli abiti e delle mani dei pastori, e alle putride esalazioni degli ovili mutano spesso il latte in vino ossiacetico, e ci danno caci cattivi.
Finché la pastorizia non si renderà fissa, finché ai pascoli naturali non saranno sostituiti gli artificiali, non avremo nè ovili decenti, nè cascine splendide, nè squisiti formaggi, nè agiatezza di pastori.
Il frutto, delle mandrie è poco; e il pastore ha solo quanto basta a soddisfare i primi bisogni della vita; e la seguente canzone popolare esprime il suo lamento:
Nu journu mi cridia d’essere papa,
E mi sugnu trovatu essari pupa,
Vajo n’avanti cumu va la rapa,
Pigliu pe appedicari e mi perrupu.
A cuntu propriu m’accattai na crapa,
Si la mangiaru cincucientu lupi.
Aju a trippa vacanti, e china a capu,
Supra u jumi aju u liettu, ed è nu scupu.
Il poverino dunque si fe’ pastore con la speranza di esser papa, e si trovò divenuto una pupa, ossia un bamboccio, che il padre sbalza a suo capriccio ora dai monti alla marina, ora dalla marina ai monti! Crebbe al pari della rapa, studiò d’arrampicarsi sul colle della fortuna, e cadde! Si comprò una capra, intruppandola con quelle del padrone, e il lupo andò a mangiarsi giusto la sua! Ha il ventre vuoto, e il capo pieno di rimproveri, e il suo letto è una fascina, un mazzo di scope, su cui si corica per non bagnarsi mentre l’acqua piovana gli passa sotto! Su per giù questo è il dormire dei nostri pastori. Al vederne uno, tutto solo nelle lande silane, coverto da capo a pie’ di un vello, con due cerri o cerfugli, ch’ei s’arrovescia dietro l’orecchio, come i due bargigli che pendon sotto il mento dei becchi, e col pedo in mano, tu credi di esserti abbattuto in un antico Fauno. Quando il tempo si abbuia, quando le piante sfrascano, quando il tendone dei nuvoli è rotto dai lampi, egli conficca la scure ad un albero per farne un parafuimine, e si colloca in distanza. Quando diluvia si ricoyera sotto un frascato; se il frascato gli manca ficca il pedo a terra, sciorina sopra il manto e se ne fa un ombrello, si corica sopra una fascina di scope con la panettiera sotto la testa e dorme. Quando il tempo schiara, egli o zampogna, o fila lana per farne crocili, o fa rocchette per regalarle alla sua bella; nè si dimentica mai di incidere sul manico della rocca un pastorello, ed un cane. Questo modo solitario di vivere lo educa al vizi propri della solitudine, ed uno di questi è accennato dal torvum tuentibus hircis di Virgilio. L’altro suo vizio è l’insensibilità di cuore: il mondo può rovinare, il pastore non se ne briga. Egli dice: Piecura nivura e piecura janca: chi mori mori, e chi campa campa, il quale suo proverbio, si traduce così: Muoia chi muore, viva chi vive: le pecore altre son nere, ed altre bianche, e gli uomini debbono essere quel che sono, gli unì felici, e gli altri no. Il fatalismo è la religione del nostro pastore; nulla egli teme che il mal tempo ed il mese di marzo, ed intorno a ciò ha delle opinioni singolari. Al giorno della Candellata., egli dice, esce il lione dalla tana e grida: Se nevica e se piove, quaranta giorni vi sono ancora; ma se sole spande, tant’acqua getta. E più volte noi domandammo che cosa fosse codesto leone, e da che tana si affacciasse. E il pastore ci rispose: <
Queste favole che noi abbiamo raccolto dalla bocca del popolo, queste credenze ad una signora misteriosa che col roseo dito fa un buco nelle nuvole, ad un leone vecchio, che come un vecchio Barbanera si affaccia dalla tana a far prognostici sul buono o reo tempo, a Marzo creduto mulo, che annega la madre e vince il fratello., accennano a tradizioni antiche, a poemi popolari perduti ad idee pagane non ancora estinte tra noi, ed aprono ai nostri giovani studiosi una miniera inesausta e ancora intatta di ricerche interessanti, pregiate in Germania, in Francia, in Inghilterra, e da noi trascurate.
I pastori abbandonano a vicenda la mandria, e rientrano in paese ogni quindici giorni; ma ciò avviene di estate, non d’inverno, perché in questa stagione trovandosi nei luoghi maremmani vi dimorano sei mesi dell’anno non interrotti mai, essendo troppo lontani dai villaggi nativi. E questo vivere loro segregato o selvaggio in campagna, senza culto, senza insegnamento religioso, li rende stupidi ed ignari di ciò che, non dico ogni uomo, ma ogni fanciullo cristiano deve conoscere. Del mondo civile han poche ‘idee, di Dio nessuna, e noi più volte ci siamo provati a studiare il laberinto del loro cervello, e non ci è riuscito. Il popolo che li deride al vederli entrare in paese, camminando in punta piedi come le capre, avventando la persona coll’atto di chi col vincastro si spinga innanzi le pecore, e facendo attorno a sé certe guardature da lupo, ne ha dipinto l’indole balorda, ed i costumi brutali nella qui sotto poesia, onde i fanciulli nostri’, birichini che sono, non mancano mai d’inseguirli cantando:
Ù pecuraru qannu va alla missa
Si assetta ‘nterra, e mussu e piedi accucchia,
Vidi l’acquasantara e: – Chi d’è chissa?
Mi pari l’acquicella de na pucchia…
E’ molto se il pecoraio ode messa cinque voltel’anno. Entrando in Chiesa
s’assetta per terra -ed accoppia (accucchia) il muso coi piedi.stando a quel modo guarda tutto e di tutto ha maraviglia. – Vede l’acquasantara, ossia la pila dell’acqua benedetta, e domanda.: Che cosa è questa? gli pare che sia l’acqua ferma d’una pozza (pucchia). E’ una magnifica idea.
Quannu senti sonari li campani
Grida: Cumpagnu miu, dammi sa mazza
E dà nu fischiu pe’ chiamani cani,
Ca si cridi lu lupu alla garazza.
Ma la maraviglia si fa spavento come egli ode suonare i sacri bronzi. Quel suono gli sembra venire daicampanacci delle pecore assalite dal lupo dentro l’ovile; e ‘1 buon uomo dimentico di trovarsi in chiesa grida al compagno: – Dammi qua codesta tua mazza, – e fischia chiamando i cani, che si trovano Dio sa dove.
Quannu pua vidi l’ostia de l’ataru
Cridi ch’è na pezzulla e casu friscu.
La pittura si fa più viva. L’ostia del prete all’altare gli sembra un caciolino; ma ciò che segue è più bello:
E si mindi allu prieviti a gridari:
Chi fò? Alla mandra tua. c’è stata a pisca?
E grida al Prete: Che avvenne dunque? La tua mandria or fu sì infeconda, perché tu facessi1 codeste caciuole così meschine? Il bello è quando Il pastore si comunica. Il comunichino, che vede biancheggiare tra l’indice e il pollice del prete, gli pare un tocco, un morsello (mù zicu) di ricotta. E la canzone continua:
Quannu pua si comunica, illu arricchia,
Dici: chi d’è su muzzicu ‘e ricotta?
Vieni alla mandra mia, ca ti n’atticchiu,
Intantu chi ci vu’ fari na botta.
Grazioso quel ‘arricchìa: esprime l’atto di bestia spaventata che appunta l’orecchia (ricchia); e più grazioso quell’attuchiu che pinge col suono di glon glon che fa il gorgozzule di chi avidamente mandi giù liquidi o cibi; e il pastore vuol dire: Mio buon pretino, va là con codeste miserie di ricotta: vieni a vedermi, e te ne caccero io di quelle tante in corpo, che ne creperai. Ma la canzone è implacabile; dopo averlo berteggiato nella chiesa, lo berteggia tra le braccia della moglie.
U pecuraru è cumu nu sumieru
Ed all liettu nun si sa curcari:
Quannu mindi la capu alIu spruvieru
Si cridi ch’è lu ziernu d’u pagliaru.
Quannu mindi la capu. a lu cuscinu,
Si cridi i ch’è la trastina d’u pani;
Quannu tocca li minni alla mugliera
Si cridi ch’è la piècura allu vadu.
Quanta la verità e fantasia insieme! Il pastore, nuovo ch’egli è al letto, vi ‘si affonda e vi si voltola come somaro in un renacchio; scambi lo sproviero con la cinta della sua capanna, il guanciale con la sua panattiera di bassetta, le poppe della moglie con le tette della pecora! Ma i nostri pàstori non tutti tolgono donna:
il più è consigliato dalla miseria a’ rimanersi celibe; e se il celibato dell’alte classi è la cangrena della società nostra n Calabria, quello dell’infime n’è la peste. La seguente canzone popolare esprime intorno al matrimonio Il modo di pensare del nostro pastore:
Tiegnu lu cori nmienzu a dua pensera,
Nun aju chi chiù prima cuntentari:
Uno mi dici: Pigliati mugliera,
l’atru risponni: Nun ti la pigliari.
Napu tri juorni ti mustra lu pedi:
Accattami li scarpi e lu sinali.
Pe la paura mi piglia la frevi;
Chi diavulu l’ha tanti dinari?
Nel suo cuore dunque il sì tenzona col no. Un pensiero gli dice: Prendi moglie; un altro gli risponde: Non prenderla; perché dopo tre giorni ella ti mostrerà il piede (e questo atto ritrae a capello l’indole delle nostre donne) e dirà: Comprami le scarpe, comprarni lo zinnale; e questo pensiero (conchiude il pastore) mi mette i brividi addosso. Il vaccaro, il bovaro vanno più in là: le corna delle loro bestie sono una muta ed eloquente lezione per loro, ed essi cantano:
Giuvani, chi ti nzuri e nente sai,
Cuntenta priestu li capricci tua.
Nzùrati; ca lu meli proverai,
Pua si riventa tuossicu de vua.
Vì’ ca li donni su pompusi assai,
Nun li cuntenta nisciunu de nua;
SI vuonu ncuna cosa e tu nun l’hai,
Ti minduno u fruntaJi de li vua.
E ‘1 consiglio di questa canzone è saggissimo. Per questi poveretti il mele del matrimonio indi a pochi giorni passa in amaro fele di bue. Nessuno di loro può soddisfare a tutte le voglie di sua donna, e costei li impianta in fronte il frontale dei buoi, gli fa le fusa torte, e cosi avviene. Oh! non è il solo amore del guadagno che dovrà qui di innanzi persuadere i nostri proprietarii a farla finita con la pastorizia nomade, a chiudere le vacche nelle stalle, e il bestiame minuto in ovili ben fatti, e forniti di stanze pei pastori, dove questi dimorino a un anno ad un altro, e possano convivere con le loro mogli; ma è l’amore, che debbono sentire per la morale ed igiene pubblica. Nei nostri piccoli paesi alla stagione invernale tu non trovi altro che donne separate dai mariti, e pochi preti, e pochi galantuomini, e pochi artigiani. Hanno luogo allora le seduzioni, né la cosa può essere altrimente: ed i mariti di quelle donne, che son tutti pastori, vivendo sei mesi dell’anno lontani dal focolare domestico si abbandonano alla vaga venere, e tornando a casa o vi portano, o vi trovano il germe di mille morbi vergognosi, che l’amore disprezza, la miseria non cura, la generazione propaga. E tanta calamità non è altrove si grande quanto nei Ca ali, i cui abitanti privi del terreni silani altro partito non hanno per vivere che di emigrare armati di vanga in Sicilia, o di divenire pastori, vaccari e giumentieri. E chi sentesi cuore in petto ha certo di che fremere alla vista di tante povere famiglie, alla cui miseria si aggiunge per soprassello la malsania, e che ogni anno nei mesi estivi corrono, con improvvido consiglio, nei bagni termali della Guardia. Bisogna andar colà per conoscere a fondo le miserie- popolari; e se avrai cuore per non sdegnare la conversazione degli infelici, aria di bontà nel viso e nei modi per procacciartene la fiducia, ed intelligenza per comprenderli, tu udrai quello che noi abbiamo inteso, e che ora scrivendo non possiamo ridire.
Diremo solo che tra tanto sorriso di cielo, e bellezza di natura che ne circonda, il nostro pastore, non ostante il suo miserabile vivere, è pur bello. Bello si fa lo spino, quando primavera lo copre di fiori; ed egli si fa bello quando amore lo desta. E amore lo desta nel mese di Pasqua. L’inverno è passato; non gli è più letto una fascina sull’acqua, ma il campo fiorito; non più cibo un duro pane favato, ma latte e ricotte. Ed egli porta bene la vita, educa la zazzera, spiana le grinze, e se il bracciante, intoppandosi in lui nei di festivi in piazza, gli fa segno d’invidia, e dandogli d’un pugno alla schiena (come è stile dei nostri villani nel salutarsi) gli dice: Oh le spalle di ladro che hai fatte! egli con rauca voce gli risponde:
U pecuraru è statu vistu a Pasqua
Quannu si mangia la ricotta frisca;
Ma nun è statu vistu u misi e marzu
Quannu jestima (bestemmia) li Santi de Cristu.
E sentendosi lieto, e bene in gambe, la domenica rientra in paese, porta la mancia al padrone, poi passa innanzi l’uscio della bella e se costei è sulla soglia, cava dalla panattiera un caciolino, e glielo porge. Poi la notte movendosi per tornare al gregge, le passa di nuovo Innanzi all’uscio serrato, anima la Zampogna, e canta. Teocrito ha dipinto i nostri antichi pastori, che d’inverno migravano come ora verso le marine di Crotone; ed in una delle sue egloghe un pastore calabrese canta così:
Ah perché non posso trasformarmi in quest’ape che ronza? Se così fosse, o Ninfa, io penetrerei nel tuo speco, introducendomi a traverso le verdi frondi e l’ellere che lo coprono…». Questa poesia è bella; ma Teocrito è un meschinissimo poeta a paragone del nostro pastore quando canta:
Vorria èssari nu milu, si potissi,
E dintra u piettu tua ci giriassi!
Vorria èssari seggia, e tu sedissi,
Ed iu cu si jinocchia ti jucassi!
Vorria èssari tazza, e tu vivissi,
Ed iu cu si labbruzzi ti vasassi!
Vorria essari liettu, e tu dormissi,
Ed lu lenzulu chi ti cummogliassi!
Vorria èssari Santu, e pua morissi,
E tù cu sì manuzzì mi pregassi!
Nessuna, letteratura antica o moderna ha una anacreontica simile a questa. Com’è ritratta bene la natura! Le nostre donne prive di tasche usano riporsi tra le mammelle la chiave, il denaro, il gomitolo de filo, la noce, la castagna, la mela, che altri doni a loro. E il nostro pastore non offre una mela alla sua bella, ma brama di trasformarsi in mela per essere riposto nel seno di lei. Desidera di mutarsi in sedia, in tazza, in letto, in lenzuolo. e l’ultimo desiderio è d’una sublimità commovente. Essere santo, morire, ottenere un tempio, un altare ed una statua, e poi vedere la sua bella venire a quel tempio, prostrarsi a quell’altare, stendere le manine e pregare a quella statua, oh si può immaginare cosa più genitile e graziosa? Ma la donna è una brava tessitrice; il rumore del suo telaio ha destato spesso un palpito al nostro pastore: che credete voi ch’egli desideri?
Mi vorra. riventari de marbizzu
Pe mi vittari dintru su tilaru:
Ti rumperra lu piéttini, e lu lizzu,
Puru la navettella de li mani.
Vuol cangiarsi in tordo, ficcarsi tra l’ordito del telaio, rompere col becco il pettine, Il liccio, ed anche (e quell’ anche è grazioso) la spola, ch’ella ha in mano: Il dasiderio di Teocrito di entrare nella forma di ape è espresso meglio ed altrimente nella seguente canzone:
Oh perchi dintru a chilla finestrella
Trasiri nun mi fai, mala fortuna?
Là dintra, c’èdi na figliola bella,
Ch’à dintra u piettu u suli cu la luna.
Mi vorra riventari rinninnella
Pe la jiri a trovari quannu è sula;
Li vorra muzzicari na minnella,
Cumu la vespa a lu cuocciu de l’uva.
E’ qui ben altre che l’ape di Teocrito! Non contento dl trasformarsi in rondine per sorprendere soletta lei, che ha nel seno il sole e la luna, egli vorrebbe essere una vespa che morde un granello d’uva, un grappolo dit moscatello, e quel grappolo è il seno della sua donna.
19/11/2006