BENVENUTI IN FRASQUI

C'E' SEMPRE UN MODO DIVERSO DI VEDERE LA REALTA'

Laboratorio Marchesato

Mastro Bruno Pelaggi

” Storia di Hetel “Donne e lotta al latifondo.

Cinquant’anni fa nel cuore del latifondo, nel Marchesato di Crotone, ha avuto luogo l’ unico vero grande rivolgimento popolare diretto a modificare le condizioni di vita nelle campagne e a spianare la strada alla Riforma Agraria.

E’ stato un susseguirsi di lotte e di iniziative politiche – occupazione di terre incolte, scioperi al rovescio, manifestazioni di piazza, dibattiti, convegni, comizi – che hanno coinvolto il territorio e le popolazioni del crotonese.

La guerra era finita da poco e le conseguenze di quella tragedia umana erano ancora visibili nelle persone e sulle cose: c’erano distruzione, tanta disperazione e non si mangiava abbastanza.La collera della gente contro gli speculatori che ingrassavano con il mercato nero era notevole e incontenibile. Si protestava dovunque: a Crotone, per reprimere la rivolta popolare contro gli agrari che “imboscavano” derrate alimentari per dirottarle verso il mercato nero, fu imposto il coprifuoco e intervennero l’esercito e la polizia. L’assedio alla Citta’ duro’ diversi giorni; i feriti furono molti e gli arrestati, tra cui alcune donne, tantissimi. A Petilia Policastro i carabinieri spararono sulla folla e sul selciato della piazza caddero, colpiti a morte, un uomo e una donna.

Il fascismo era ormai il passato e un po’ dovunque era possibile ascoltare discorsi nuovi che parlavano di liberta’ e di diritti. Gli anglo-americani erano ancora accampati all’Hotel Jorno, quando a Crotone si incominciava a sentire il respiro della classe operaia e, nelle campagne, i primi gruppi di contadini andavano all’assalto del latifondo, fonte non certo secondaria delle loro condizioni di miseria e di arretratezza.

Il tempo che aveva simboleggiato il dispotismo e l’ignavia era giunto al capolinea e una nuova stagione di relazioni umane, politiche e sociali stava per iniziare. Eppure liberarsi dai traumi della guerra, proseguire lungo la strada aperta del cambiamento e fare avanzare la lotta per trasformare il latifondo in un sistema produttivo diffuso e moderno, non e’ stato facile. La Democrazia Cristiana e parte del Clero, alla domanda di confronto, per dilatare gli spazi della partecipazione e dell’ unita’, opponevano pregiudizialmente il ricatto e la discriminazione anticomunista: erano decisamente schierati dall’ altra parte della barricata.

Tocco’ alla sinistra e soprattutto ai comunisti sostenere l’ onere dello scontro e dare alla lotta continuita’ e respiro politico. Il prezzo per andare avanti e’ stato assai pesante: quattro morti, centinaia di feriti e una lunga catena di soprusi e carcerazioni. A Calabricata, il fattore di un barone spar sui contadini uccidendo Giuditta Levato e il figlio che avrebbe partorito; a Melissa invece Angelina Mauro, Francesco Zito e Giovanni Nigro caddero sotto il fuoco della polizia di Scelba. Ma prima ancora che il governo De Gasperi fosse costretto alla resa, altri lavoratori trovarono la morte lungo la strada della Riforma Agraria.

Alle donne, splendide compagne nella lotta e nella vita, tocco’ pagare alla repressione di Scelba il prezzo piu’ alto; e nel cinquantesimo di Melissa sono ancora loro, le donne, a ricordarci con le loro storie che non tutti i frutti sparsi nelle mille Melissa del nostro tempo sono andati perduti.

I sentimenti si possono esprimere in modi diversi. Quello scelto da Hetel, una giovane ragazza delle “Langhe” di Cesare Pavese, per ricordare Melissa e le lotte per la terra, e’ decisamente tra i piu’ belli e significativi: Hetel, nella stagione della vendemmia, in una cascina tra le colline di Santo Stefano del Belbo, partorira’ una bambina che chiamera’ Angela Melissa. Che dire? E’ una storia comunque molto bella e interessante, anche se sono trascorsi cinquant’anni, e il Marchesato non e’ piu’ quello dei ricordi di Luciana, la nonna di Hetel.

Sono stati sconvolti gli assetti economici, sociali e politici e Crotone non e’ piu’ l’ anomalia di un tempo: l’ apparato industriale, la classe operaia e le sue lotte per l’ emancipazione del lavoro, sono solo un ricordo molto lontano.

E anche quel “rosso”, intenso e diffuso, che aveva fatto sognare tanta gente, si e’ via via stemperato, come la passione per la lotta politica che aveva unito e contrapposto diverse generazioni di giovani. Ora che viviamo alla giornata, appiattiti sull’effimero, sradicati dal terreno politico-culturale nel quale, un tempo, affondavano le nostre radici, e la societa’ dei consumi e i mass-media sono la nostra ombra, basta una fontanella, qualche schizzo d’ acqua appena colorata o un modesto ritocco estetico della nostra citta’ a confondere le idee e porci in apprensione.

Quindi, nessuna recriminazione se, in una realta’ dove il passato si vive con approssimazione e i giovani invecchiano da disoccupati, cose anche molto importanti possono apparire anacronistiche e non riescono a far varcare la soglia della curiosita’. Ma non e’ detto che un segnale cosi’ forte, come quello di Hetel, non possa scuotere i sentimenti, ripristinare, sia pure per un breve spazio di tempo, i contatti tra passato e presente e, chissa’, far compiere il miracolo di riaccendere nella mente della gente la voglia di pensare e forse anche di lottare.

Comunque, piu’ che le risposte che verranno conta il fatto: e il fatto e’ che nel cinquantesimo di Melissa non poteva esserci manifestazione di pensiero piu’ alta e significativa verso per il sacrificio e l’impiego di quanti lottarono per affrancare il mondo contadino dalla presenza oppressiva e avvilente del latifondo. Forse non troveremo mai le parole giuste per descrivere a Hetel la nostra gratitudine, percio’ le diciamo semplicemente: Hetel, grazie per averci regalato, con la tua sensibilita’ di donna e di compagna, in una situazione con poche certezze e tanta confusione, dove anche la speranza sembra andare a rotoli, un segno di grande conforto umano e politico. E grazie anche a nonna Luciana, ottima amica e compagna di lotta, che ha saputo infondere nella tua mente l’ idea della verita’ e il bisogno di sapere per non dimenticare.

Luciana, negli anni cinquanta, poco tempo dopo Melissa, era giunta dal Nord a Crotone, con tanti altri compagni, per aiutarci a costruire il Partito nuovo di Togliatti. E qui, nel Marchesato, aveva avuto modo di vivere stagioni molto intense di impegno politico e captare in quel nostro mondo diverso, quasi immateriale e inaccessibile, emozioni e sentimenti che evidentemente non sono andati dispersi e che ora riaffiorano dal fondo della sua memoria per rivivere in quella di Angela Melissa.

Eí stato in quegli anni che abbiamo sognato e lottato; speso la parte migliore della nostra vita e pagato prezzi, anche sul piano affettivo, oggi assolutamente impensabili. Eravamo giovani e c’era l’ incoscienza e la presunzione degli anni che solitamente conoscono emozioni incontenibili; ma c’era anche la certezza di essere, dalla parte giusta, legati tanta amicizia, che allora era ancora un sentimento molto forte e vero e tantissimo calore umano. La figlia di Hetel crescera’ rigogliosa come i pini giovani della Sila e delle Langhe a primavera; e quando sara’ abbastanza grande e avra’ modo di conoscere la nostra gente e le storie che ha saputo esprimere, capira’ che chiamarsi Angela Melissa non e’ solo importante ma anche molto bello.

Hetel e nonna Luciana avrebbero voluto che la loro decisione restasse riservata, al riparo di ogni possibile fraintendimento. Puo’ darsi che avessero ragione loro: ma com’era possibile nasconderla, sottrarla alla conoscenza delle persone e della gente che l’avevano ispirata? E cosi’, dopo un lungo e non sempre facile confronto, e’ maturata l’ idea di utilizzarla come testimonianza della partecipazione e del ruolo delle donne nella lotta per la terra e la liberta’ e per sollecitare al Governo della Regione la rimozione di tutte le pastoie che da oltre dieci anni impediscono la funzionalita’ di quel Centro che dovrebbe occuparsi appunto della ricerca sulle lotte contadine.

” Treccani a Crotone “

Autunno 2000: Ernesto Treccani, il Poeta che ha dipinto “La terra di Melissa” ed esaltato nel mondo la straordinaria lotta di emancipazione dei braccianti e dei contadini del “Marchesato” e della Sila, compie 80 anni e da 50 ci gratifica del suo impegno politico e civile, della sua Arte e della sua amicizia.

E’ un privilegio che non vogliamo perdere neanche per gli anni a venire e un’occasione per ringraziarlo, augurargli tutto il bene possibile e dirgli: “ vorremmo che il tuo volto perdesse le rughe lasciate dal tempo e dalle preoccupazioni e la giovinezza riprendesse a rifiorire per sempre”.

Ernesto era giunto qui, nel cuore del latifondo, dalla sua Milano, subito dopo l’eccidio di Melissa e d’allora non ci siamo più perduti di vista: voleva sapere di noi, capire le ragioni di quelle lotte di terra e libertà, soddisfare quell’enorme bisogno di conoscere la gente, esprimere lo sdegno per quei morti ammazzati a “ Fragalà” dalla gendarmeria di Scelba.Per molti di noi Ernesto era un giovane intellettuale “passato”, come tanti altri, dalla parte del proletariato; un compagno di strada di quel vasto movimento di uomini e donne, ricco di storia e di passione rivoluzionaria, che sognava di cambiare il mondo e che noi chiamavamo Partito Comunista.

Per altri era l’ingegner Treccani, un conte con l’emblema di famiglia ancora ricamato sulle finissime camicie di popeline e tanta curiosità. Il figlio del senatore Giovanni, l’industriale tessile lombardo, emerito fondatore della prestigiosa “Enciclopedia Treccani”.

E, tra i più “ortodossi”, non mancarono quelli che, di fronte alla “novità”, per un malinteso senso della “vigilanza rivoluzionaria” si fecero venire qualche scrupolo sulla “purezza” della sua fede politica.

Non passò molto tempo e per tutti Ernesto era soltanto il compagno Treccani. Poi diventammo anche molto amici e, dentro di noi, coltivammo sentimenti di stima e di profondo affetto che hanno accresciuto il bisogno di frequentarci, scambiarci pensieri, delusioni e anche speranze: non volevamo che quel filo di solidarietà e di comunanza d’idee, nato nel Partito e via via trasformatosi in una grande amicizia, si dissolvesse nel nulla; e così con Ernesto, Pasquale Iozzi, che non c’è più, e Tonino Nicoletta, costruimmo una “cellula” che funziona tuttora.

Come dimenticare il tempo e le serate trascorsi insieme a Crotone, da Tonino e da Pasquale, per fare quattro chiacchiere, gustare le zuppe e le grigliate di pesce, le insalate, le favolose pepate di cozze, i carciofi in umido, preparati da Lisetta, Angela e Antonietta, le nostre compagne?

E poi ancora a Melissa, dopo gli incontri in Sezione, da Ciccio Lonetti, prima che emigrasse a Valenza, e dopo, da Pietro Pizzuti, per assaporare, tra un aneddoto e un buon bicchiere di vino, le minestre di verdure miste con legumi, il pane ancora caldo col profumo di frumento, le famose sarde salate condite con olio abbondante e fresco di macina, gli affettati di prosciutto, servite da Maria e da Laurina.

Ernesto era un abitudinario che rasentava la monotonia. Andava puntualmente a letto dopo cena, mangiava allo stesso orario e, quasi sempre, le stesse cose: solo raramente si salvavano dalla routine quei poveri cinquanta grammi di spaghetti che solitamente “mbruscinava” con qualche goccia d’olio.

E’ stato in una di quelle stagioni di lotte e di forte impegno ideale che conoscemmo tantissimi compagni: Lidia, la simpaticissima compagna di Ernesto, e suo fratello, il critico letterario Raffaelino De Grada; Carlo Levi e Antonello Trombadori, Ezio Taddei e Toni Nicolini.

L’interesse per le “cose” che Ernesto andava dipingendo è nato molto più tardi. E non certo perché mancassimo di sensibilità o perché sottovalutassimo l’importanza della Cultura nel processo di trasformazione e di rinascita del Crotonese. Ma più semplicemente perché in quegli anni l’impegno politico era intensissimo e non lasciava tempo per pensare ad altro. Bisognava incalzare l’Opera Sila per accelerare gli espropri e l’assegnazione della terra espropriata ai contadini, contrastare la spinta del Governo De Gasperi verso l’emigrazione e l’abbandono della terra, che era la risposta sbagliata ad un problema giusto, come il lavoro e l’occupazione, fare i “Partigiani della Pace” e lottare contro la “legge truffa”, sviluppare le iniziative in difesa del suolo e fronteggiare, in un clima arroventato dalla guerra fredda e dall’anticomunismo, l’azione di ricatto e di corruzione messa in campo dalla peggiore Democrazia Cristiana per bloccare l’espansione della Sinistra e la disgregazione del blocco agrario.

E dire che all’epoca stare dalla parte di chi lottava, non cedere alle lusinghe e alle minacce e opporsi all’arroganza del potere, non era certo agevole. Anzi, spesso, si pagavano prezzi anche molto alti, ma, forse, proprio per questo in molti sceglievano di stare a Sinistra, con i comunisti e i socialisti. E non è un caso o solo il segno dei tempi che cambiano se da anni non succede più che un partito penetri tanto in profondità nel cuore della gente e nel mondo dell’Arte e della Cultura, com’era stato per comunisti e socialisti!

Melissa e il premio Letterario della Città di Crotone avevano aperto nel muro dell’incomunicabilità, che separava il Crotonese e la Calabria dal resto dell’Italia, una grossa breccia. Perciò sapevamo bene quanto fosse importante l’apporto della Cultura, della classe operaia e della borghesia illuminata, per mantenere aperta la strada dell’iniziativa e della lotta e spostare più avanti e più in alto il livello del confronto con un sistema di potere iniquo e refrattario verso ogni forma di innovazione e di crescita civile.

E così per anni, Scrittori, Poeti, Editori, Artisti, e Letterati, come Giacomo Di Benedetti, Concetto Marchesi, Giuseppe Ungaretti, Leonida Repaci, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Carlo Emilio Gadda, Piero Jahier, Giorgio Bassani, Davide Laiolo, Leonardo Sciascia, Ernesto Treccani, Eriprando Visconti, Ignazio Butitta, Zanotti Bianco e tanti altri, dal Premio Letterario seppero cogliere e trasmettere importanti messaggi di cultura e di solidarietà che permisero di colmare quel vuoto di informazione e di partecipazione dell’opinione pubblica nazionale al processo di rinnovamento e di trasformazione della Calabria e del Mezzogiorno, avviato con le lotte per la terra.

Anche merito dell’intelligenza e dell’impegno di un “regista” di eccezionali qualità umane e politiche come Mario Alicata se, finalmente, il grosso della cultura e delle forze produttive e sociali del Paese “scoprivano” Melissa e la Calabria, e noi degli alleati nuovi e importanti, fino allora inaccessibili, per proseguire più speditamente sulla strada del cambiamento.

L’approccio con l’Arte di Ernesto non è stato un amore a prima vista. I colori e le immagini erano già allora molto belli ed espressivi: un insieme di sensazioni delicate ma lontane dal nostro mondo reale, quello dei poveri cristi in carne e ossa che l’Abate Padula aveva già descritto un secolo prima nel suo “Persone in Calabria”.

Da noi era ancora tutto diverso. E anche le pietre, se avessero potuto parlare, avrebbero detto di gente povera e sofferta, col cuore ancora gonfio di rabbia e ricca soltanto di dignità, d’orgoglio e di una smisurata voglia di lotta per lasciarsi alle spalle quel passato di ansie, di rinunce e di rassegnazione che era sotto gli occhi di tutti: ma era sufficiente tutto questo per intravedere, immaginare “colori e primavere” che nella realtà non c’erano?

I ragazzi e le ragazze del Marchesato erano inconfondibili: avevano il volto, le carni e le mani segnati dalla fatica e dai patimenti. Erano cresciuti troppo in fretta, sembravano l’immagine della tristezza e non avevano avuto neanche il tempo di accorgersi dell’esistenza dell’infanzia e dell’Epifania. Le donne, dal profilo greco, molto belle, ancora giovanissime erano già sfiorite e senza voglia, distrutte dalle preoccupazioni e dai figli partoriti uno dopo l’altro, come in una catena di montaggio: quasi una condizione della vita, molto antica nel Marchesato, per “consumare”, in qualche modo, il tempo libero e produrre braccia per il mercato del lavoro.

I vestiti erano residuati dell’ultima guerra: coperte, pastrani e giubbe militari; e l’abito buono, ancora impregnato di naftalina, sempre quello del matrimonio. Le case erano anguste e disadorne e le suppellettili deturpate dall’umidità e dal tempo: un po’ tutto portava ancora l’impronta del latifondo.

I servizi igienici e le opere di civiltà erano pressoché inesistenti: a Crotone, nel rione “Carmine”, oltre 2000 persone vivevano in baracche di legno prive di qualsiasi conforto; e per i 90 mila abitanti del Crotonese c’era un solo ospedale con pochi posti letto e una sola scuola media superiore, il liceo “Pitagora”, istituito dal fascismo nel 1934. Mentre l’Università di Bologna risaliva al 1200 e il liceo “Galluppi” di Catanzaro al 1870. Queste e tante altre cose ancora ci facevano diversi dagli altri e anche da quel “mondo di colori e di immagini” che Ernesto andava fermando sulle tele e nei disegni.

E poi avevamo ancora impresse negli occhi e nella mente le immagini di “Roma Città aperta”, di “La terra trema”, di “Sciuscià”, di “Napoli milionaria”: tanti pugni nello stomaco; messaggi forti e di facile lettura, diversamente dalla pittura di Ernesto che aveva bisogno di essere pensata, immaginata, decifrata; e tutto ciò allora per molti di noi era ancora un “esercizio intellettualistico” abbastanza complicato.

Ne parlammo a lungo e poi, un po’ alla volta, incominciammo a capire ed apprezzare anche il messaggio poetico e pittorico di Ernesto: non era più quello forte e immediato del tempo delle grandi fabbriche, degli opifici e dei silos, ma non per questo meno interessante.

Quando abbiamo avuto modo di vedere “La terra di Melissa”, la bellissima tela sulle lotte contadine, che Ernesto regalò al Comune di Crotone, la nostra prima impressione non fu quella di trovarci di fronte alla rappresentazione di un momento di lotta, ma di una gita in campagna, di un Primo Maggio di festa alla “Montagnella” di Carfizzi: un insieme di uomini e donne, a piedi e a cavallo, con gli attrezzi di lavoro, la “spesa” e qualche bandiera rossa, che da destra e da sinistra convergono verso il centro di una strada tracciata sulla terra per proseguire insieme verso “Fragalà”;

il “ritratto” di un mondo che non c’è ancora, ma che Ernesto intravede perché, come Nazim Hikmet, il grande poeta comunista turco, che ha trascorso la sua vita tra il carcere e l’esilio, immagina “ che i figli e i nipoti che verranno saranno migliori di chi è nato dalla terra, dal ferro e dal fuoco; e incontrandosi, senza più paura e senza troppo riflettere, si daranno la mano e diranno: come è bella la vita!”.

Per quanto emozionati da quella visione, chiedemmo timidamente qualche notizia e nel breve spazio di un attimo giunse lapidaria la risposta di Ernesto: “ che volete? Io le lotte per la terra l’ho vissute e immaginate in quel modo, perciò non avrei potuto rappresentarle diversamente”.

In fondo Ernesto aveva ragione: la sua onestà intellettuale, l’idea, i colori e le immagini di quella tela, esprimevano assai meglio di tanti discorsi il senso più vero e profondo di quel grande rivolgimento di popolo, unitario e democratico, che furono le lotte per la conquista della terra e la Riforma Agraria.

Ernesto, oramai, aveva messo radici a Melissa, la famosa rocca di antiche leggende ai confini del latifondo, guadagnandosi il rispetto e la simpatia della gente: era diventato l’amico, il compagno con cui confidarsi, il Consigliere Comunale, il Maestro e, all’occorrenza, anche l’Ingegnere; e col passare del tempo avevano perduto il loro fascino sia le camicie di “popeline” per quelle più modeste, ma freschissime, di lino grezzo, confezionate con sfacciato orgoglio, in casa, sullo “stile cinese”, dalle donne di Melissa; che le diavolerie che l’arciprete e il segretario della sezione democristiana di Melissa erano soliti propinare ai loro “parrocchiani” sui comunisti e le loro “bizzarre” idee sull’emancipazione e la solidarietà.

Il lavoro, sempre più intenso, procedeva abbastanza bene: era come se la natura, le cose e le persone, affascinati dalla grande e disinteressata disponibilità di Ernesto, si “concedessero” all’Arte senza condizioni. Spesso Ernesto passava intere giornate a dipingere volti di ragazzi, donne, tante donne e zolfatari delle miniere di “Comero”, interni di case, vendemmie delle vigne di “Fragalà”, campi di grano con i colori dell’erba appena spuntata e dei papaveri, colline di ginestre e mimose in fiore, marine assolate e trasparenze di colori cangianti diffusi nello spazio dal riverbero delle luci del sole cocente di luglio sui fondali del mare di Crotone.

Ora anche quel “nero denso”, consumato a secchi per fissare sulla tela le ansie, i sentimenti e le passioni che pulsavano tra le macchine di quelle grandi industrie della periferia di Milano, Piombino e Aubervilliers, espressione di lavoro e di ricchezza ma anche di sofferenze alienanti, è sovrastato da nuovi colori che somigliano all’innocenza dei bambini.

E’ appena l’inizio di una nuova stagione di grande impegno civile e politico e i colori e le immagini sulle tele sembrano pezzi d’umanità, oggetti della vita, la vita stessa, trasformati in pensieri pittorici: segno di un profondo bisogno di verità, di coerenza, di ricerca del punto d’incontro, più alto e significativo, tra la vita interiore e il mondo esterno; un’idea della vita nelle sue più diverse e contraddittorie trasformazioni, proiettata in una dimensione umana troppo suggestiva per non sembrare quasi irreale.

Da qualche parte avevamo letto che “Ernesto mai, prima d’allora, aveva dipinto tante tenere estati da sembrare che l’intera natura aveva tolto il lutto e che persino la Calabria era allegra”. E come poteva essere diversamente? Il Mondo era attraversato da grandi tensioni ideali e politiche, gli orrori della guerra e dell’Olocausto erano ancora molto presenti nella memoria della gente e, un po’ ovunque, c’era tanta voglia di lotta, di libertà e di un’esistenza appena migliore. Eravamo abbastanza giovani e intorno a noi c’era tanto entusiasmo e tantissima collera che funzionavano come un potente incentivo capace di fare esplodere passioni incontenibili: la Cina di Mao; l’India di Gandhi; l’Algeria di Ben Bella; il Congo di Lumumba o la Cuba di Fidel Castro e di Che Guevara, ci esaltavano quanto il disprezzo per la Spagna di Franco e per l’America della “Caccia alle streghe” di Mc Carthy e dell’assassinio dei Rosenberg.

Sembrava che finalmente le luci dovessero prevalere sulle ombre e che per l’umanità era l’alba di un nuovo giorno molto importante. E tutto questo non poteva lasciarci indifferenti, non coinvolgere e sollecitare l’immaginazione di Ernesto.

Poi, nel corso degli anni, molte cose sono cambiate: è saltato il vecchio ordine mondiale e punti di riferimento, scelte culturali e politiche, che pensavamo fossero certezze, hanno ceduto il passo a delusioni e sconfitte.

Ora viviamo la nostra idealità in una dimensione politica astratta e scioccante e la globalizzazione capitalista sembra essere il nuovo rimedio per sanare i mali che affliggono l’umanità: è probabile che quanto prima l’organizzazione globale dei ricchi incontrerà quella dei poveri per “concertare” il tasso di crescita annuo della ricchezza e della povertà; e se tutto va bene i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Noi siamo fortunati perché abbiamo il privilegio di vivere in un Paese abbastanza ricco: è migliorata notevolmente la qualità della vita e il benessere è diffuso quanto e, forse, più della libertà e della democrazia; la disoccupazione e il Mezzogiorno sono ancora un bel tormento ma in compenso sprechiamo risorse che altri ci invidiano e che potrebbero servire per strappare alla morte milioni di persone che nel mondo continuano morire di fame e di sete. Sono in forte declino lo slancio, la partecipazione e la passione politica e tutto, o quasi, “profuma” di modernità. Individuare i confini che separano la Sinistra dal Centro o dalla Destra è un’impresa pressoché impossibile e la gente, più delusa che appagata, brancola nel buio, come una folla anonima e senza storia, alla ricerca di qualcosa che non trova o non vuole trovare: sembriamo il prodotto, più o meno inconsapevole, di una società senza anima che ci sta plasmando a sua immagine e somiglianza.

I ragazzi e le ragazze ora vanno all’Università e quelli con i segni della fatica sono sempre meno. Sanno usare il computer, navigare con internet e hanno il “debole” per la macchina e il telefonino. Si ritrovano nelle stesse piazze, vestono e parlano allo stesso modo, hanno le stesse abitudini e non disdegnano l’idea del” branco”, fumano Marlboro, mangiano pizza a taglio, credono nell’amicizia, ignorano la politica, quando non la disprezzano, non conoscono l’uso dell’autocritica ma sono molto attenti ai problemi della solidarietà. Non hanno grandi ambizioni e i vecchi miti sono “roba” per elite di giovani apprezzabili per lo slancio e la disponibilità, ma settari quanto basta per lambire i confini del dogmatismo; vivono la prospettiva di invecchiare da disoccupati con consapevole e dignitosa rassegnazione.

Sono il lievito della nuova classe dirigente, i soggetti potenziali del cambiamento e non lo sanno o fingono di non saperlo, ma sono anche la spia di un malessere diffuso e pericoloso che spegne la passione politica e la voglia di lottare per essere. E’ successo già altre volte e l’umanità ha pagato prezzi indescrivibili; poi il brutto inverno è passato ed è tornata la primavera con i suoi meravigliosi colori: quelli che solitamente Ernesto usa per dipingere la libertà e la speranza che nessun inverno, neanche il più gelido, può uccidere per sempre.