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Laboratorio Marchesato

” Giovani comunisti negli anni 50 “Una piccola, grande, storia

Anche questa è una piccola storia di violenza e perversione politica. Ne parlo ora, in un momento così difficile, per unire la mia voce a quella degli altri che come me disprezzano il terrorismo (tutti i terrorismi, anche quelli delle bombe “intelligenti” e dei tribunali militari speciali) e per ricordare l’impegno del senatore a vita Giovanni Leone, recentemente scomparso, contro la violazione dei diritti delle persone e delle libertà democratiche.

Ho avuto modo di conoscerlo e apprezzarlo tantissimi anni fa, quand’era già un avvocato prestigioso e un politico molto importante, ma anche un uomo libero, scevro da pregiudizi ideologici e da condizionamenti politici, rispettoso dei diritti che la costituzione repubblicana riconosce e assicura alla comunità civile.In un momento abbastanza critico della storia del nostro Paese intervenne con grande determinazione a sostegno dei diritti costituzionali, minacciati e stravolti da alcuni settori dell’apparato dello Stato per bloccare l’azione della sinistra, particolarmente critica verso la politica estera del governo di centro-destra dell’onorevole De Gasperi.

Erano gli anni Cinquanta e molti di noi, ancora giovanissimi, contaminati dalla politica e conquistati dalla storia e dalle idee comuniste, immaginavano già un futuro diverso. Allora, le nostre frequentazioni con quel mondo di braccianti e contadini, che stentavano la loro vita ai margini del latifondo, tra la malaria e la miseria, erano molto intense e le feste natalizie erano un’occasione in più per incontrarli, salutarli e stimolarli a stringere i tempi dell’iniziativa e della campagna di proselitismo.

Quell’anno a me toccò andare a Isola Capo Rizzuto. E così, qualche giorno prima del capodanno, nella sala del partito – una specie di casa del popolo che ospitava anche la cooperativa agricola e la Federterra – ebbe luogo una grande assemblea dei lavoratori.

Erano tempi assai difficili, ma in compenso c’era tanta voglia di lottare! Nel mondo c’era ancora la guerra fredda e la scomunica dei “miscredenti”, decretata da un Papa molto controverso e intollerante, si era trasformata in un grosso boomerang per le coscienze di tantissimi cattolici e di tanti sacerdoti che conoscevano e apprezzavano i comunisti.

Nel crotonese era appena iniziata l’era dell’Opera Sila e nel suo agire c’erano già i segni di una scelta politica che avrebbe determinato il fallimento della riforma agraria e il grande esodo degli anni Cinquanta.

Tra le due Coree era guerra vera e la prospettiva di complicazioni mondiali più che un’ipotesi era una drammatica realtà. In Europa, l’Italia era l’avamposto più avanzato della politica maccartista americana e perciò anche la più esposta ai rischi di ritorsioni e di un suo diretto coinvolgimento nel conflitto.

Contro la politica dei blocchi, responsabile di questo stato di cose e foriera di nuovi e più grandi disastri per l’umanità, i nomi più prestigiosi della cultura, dell’arte e della scienza, da Pablo Picasso (chi non ricorda la sua colomba della pace?) a Jean Paul Sartre, Madame Curie, Charlie Chaplin, Simone De Beauvoir, Giuseppe Ungaretti, Luchino Visconti, Simone Signoret, Cesare Zavattini, Pablo Neruda, Alberto Moravia, Paul Robeson, Renato Guttuso, Leonida Repaci, Eduardo De Filippo, erano in campo con i Partigiani della Pace, quel vasto movimento di uomini e donne, milioni e milioni di persone sparse per il mondo che lottavano per l’autodeterminazione dei popoli e la coesistenza pacifica.

In quella grande sala affollata di lavoratori, impregnata del fumo del tabacco e della legna che bruciava nel camino, parlammo di questi problemi e del congresso costitutivo della federazione comunista del crotonese, che si sarebbe svolto nel mese di marzo del 1951. La decisione della direzione del partito di forzare le norme statutarie per costituire in un centro non capoluogo di provincia la quarta federazione comunista calabrese, era senza precedenti, decisamente lusinghiera per quel pugno di comunisti che si era guadagnato la stima e la simpatia della gente come nessun altro aveva saputo fare prima.

Con i compagni ci siamo lasciati nell’intesa di rivederci subito dopo le feste; perciò, trascorsa l’Epifania, tornai a Isola per riprendere la discussione, ma non fu possibile perché quella sera mi arrestarono. Seppi molto tempo dopo, in carcere, che ero accusato di istigazione alla diserzione, incitamento a disubbidire alle leggi dello stato e di vilipendio alle forze armate e al governo: una quantità di reati che se fossero stati provati, molto probabilmente mi avrebbero portato a invecchiare in carcere! In questa storia c’è poco di personale: i miei detrattori li ho incontrati per la prima volta nel tribunale militare di Napoli. L’obiettivo vero dell’ imboscata erano i comunisti: io ero solo uno di loro; forse il più esposto perché avevo osato condurre in quel pezzo di marchesato le lotte per la conquista delle terre del marchese Berlingieri, del barone Baracco e del conte Gaetani, per l’imponibile di manodopera, e le opere di civiltà, ma nulla di più.

Comunque la trappola per incastrarmi era già bella e pronta: organizzata da un essere spregevole e corrotto al soldo della democrazia cristiana e della mafia, odiato e temuto dalla gente per i suoi raggiri e da un maresciallo dei carabinieri subdolo e molto sensibile alle ragioni del potere. Per l’esecuzione dell’operazione avevano ingaggiato due poveri cristi col compito di allertare le antenne e captare i segnali provenienti dai contrari, e cioè dai comunisti. E così quella sera parteciparono all’incontro e puntualmente riferirono il senso della discussione che, opportunamente manipolato, fu tradotto in un esposto denuncia e presentato al maresciallo dei carabinieri. Nell’esposto si parlava dell’assemblea, del mio intervento e della loro indignazione per le parole di profondo disprezzo che avevo pronunciato contro il governo e le forze armate e per avere detto ai giovani presenti che alla guerra era preferibile la diserzione. In chiusura una “nobile” dichiarazione di fede patriottica: “siamo due poveri reduci e combattenti e non potevamo tacere”.

I miei seppero dell’arresto dopo alcuni giorni ma non ci incontrammo perché improvvisamente da Catanzaro mi trasferirono a Napoli, nel carcere di Poggioreale, a disposizione del tribunale militare. La traduzione fu un disastro: il treno era affollatissimo, non c’era posto a sedere e per tutta la notte ho viaggiato nel corridoio, in piedi, con i polsi doloranti stretti dai ferri.

A Poggioreale fui “parcheggiato” nella cella 41 del padiglione K che già ospitava quattro detenuti comuni in attesa di giudizio. Era la prima volta, dopo la fine della guerra, che un cittadino incensurato, nel pieno godimento dei suoi diritti, veniva sottratto al suo giudice naturale e processato da un tribunale militare, senza mai essere stato interrogato. La situazione politica era molto critica e quello del tribunale militare era certamente il segno più visibile dell’involuzione autoritaria che stava maturando nel Paese, complice il governo e le forze del centro-destra che lo sostenevano.

Bisognava fare qualcosa per invertire la rotta, impedire che si mettessero in discussione le garanzie costituzionali e si violassero fondamentali libertà civili e il diritto delle persone ad avere un processo corretto. Il partito intervenne con grande forza e determinazione sollecitando la partecipazione delle forze democratiche alla costruzione di una risposta comune, all’altezza dei problemi che la nuova situazione aveva prodotto sul piano politico, costituzionale e giudiziario.

La risposta non si è fatta attendere: in parlamento e nel Paese le manifestazioni di protesta e solidarietà sono state tantissime e anche molto significative. Importanti settori del mondo cattolico, della cultura e delle forze politiche si sono dissociati dalla linea del governo manifestando la loro preoccupazione e il loro dissenso. La stessa composizione del collegio di difesa con la partecipazione dell’onorevole Giovanni Leone, degli ex-ministri Fausto Gullo, Oronzo Reale e Mario Palermo e dell’onorevole De Caro, presidente del partito liberale, era indicativa della crisi che si era aperta nel Paese e delle risposte messe in campo dalle forze sociali e politiche per fronteggiarla.

L’eco dello scontro giunse anche a Poggioreale: centinaia di messaggi provenienti dalla Calabria e dall’Italia mi furono recapitati in carcere. Poche parole di solidarietà, a volte un saluto e un nome, altre volte qualche breve pensiero e tanti nomi di persone sconosciute, di compagni, di lavoratori delle fabbriche, di dirigenti politici e sindacali. Particolarmente toccanti le testimonianze dei giovani comunisti e socialisti napoletani della redazione napoletana de “L’Unità”, di Francesca, Renzo, Emilia, Carlo, Gianni e Maurizio (gli amici di Renato Caccioppoli, il famoso matematico napoletano, che molti anni dopo saranno i protagonisti del bellissimo romanzo di Ermanno Rea “Mistero napoletano”, premio letterario Viareggio nel 1998) per dirmi che mi erano vicini e che la reazione non sarebbe passata perché la democrazia era molto più forte. Avevano ragione loro: dopo il mio, quello di Salvatore Frasca, un giovane compagno socialista di Castrovillari, è stato l’ultimo processo celebrato a dei civili in un tribunale militare.

E’ stato allora che ho conosciuto l’onorevole Giovanni Leone: era con Fausto Gullo, Mario Alicata e Silvio Messinetti. Ci incontrammo in un’aula del tribunale militare; mi chiese qualche notizia inerente al processo e poi, molto paternamente, mi spiegò che era intenzione del collegio di difesa sollevare l’eccezione d’incompatibilità della Corte a giudicarmi. Aggiunse che la cosa avrebbe potuto allungare i tempi del processo, per cui volevano essere confortati dal mio parere. Mario Alicata non aspettò la mia risposta: intervenne e dopo le prime parole, visibilmente impacciato e commosso, mi disse che era deceduto mio padre e che quindi la richiesta dell’onorevole Leone andava valutata con molta attenzione. Mio padre era morto il 18 marzo alla vigilia del processo e del suo 53° compleanno, disfatto dalla fatica e dalle esalazioni dell’acido solforico prodotto nel reparto più nocivo della Montecatini. Dopo qualche istante, giusto il tempo per scambiarci qualche parola, decidemmo che le ragioni della pregiudiziale erano prevalenti su ogni altra considerazione e così, il Principe del Foro, di fronte ad un pubblico attento e silenzioso, con straordinaria passione politica espose alla Corte tutte le motivazioni giuridiche e giurisdizionali che deponevano a favore dell’eccezione d’incompatibilità. La corte si riservò la decisione e dopo qualche tempo rigettò l’eccezione e fissò il processo per la fine di maggio.

Fu un’attesa lunga e snervante che riuscii a sopportare soffocando la collera solo perché non potevo fare altro e perché sapevo che non ero solo con le mie idee e i miei pensieri; che potevo contare sul sostegno degli amici, dei compagni e della famiglia.

Il 28 maggio ebbe inizio il processo. Ad attendermi in tribunale c’erano tantissimi compagni venuti da Napoli e da Crotone, tra gli altri: Salvatore Cacciapuoti, segretario della federazione comunista di Napoli, Giovanni Arenella e Pina Colia, i miei più affettuosi “angeli custodi” napoletani; Silvio Messinetti e Ciccio Caravelli, l’altro mio difensore, Giuseppe du “trujju”, Franciscuzzu “Mazzola”, Ntoni “trigghia” e “micu Biondi”, testimoni al processo.

A presiedere la Corte c’era un colonnello dell’esercito e a latere altri due ufficiali di cui uno in rappresentanza della Marina militare, l’arma in cui avevo prestato servizio. Riassunti i termini della causa, il processo si è concluso in serata con la mia piena assoluzione. Era accaduto un fatto assolutamente inaudito, che solo la schizofrenia di un vecchio arnese dedito alla provocazione avrebbe potuto concepire. Gli estensori dell’esposto avevano sostenuto di essere stati indotti a denunciarmi perché le mie parole li avevano profondamente feriti nel loro orgoglio di combattenti e reduci. Invitati da Fausto Gullo a precisare dove avevano combattuto e quando erano stati fatti prigionieri, il più giovane ha risposto che ci doveva essere un equivoco perché lui, come orfano di guerra, era stato esonerato dal servizio militare; mentre l’altro ha riferito che essendo sin dalla nascita sofferente di una grave forma di asma bronchiale, la commissione medica del distretto di Catanzaro l’aveva destinato ai servizi sedentari, che peraltro non aveva mai svolto.

A quel punto era già notte fonda, perciò la Corte ha chiesto ai due di chiarire se la verità era quella appena ascoltata oppure quella contenuta nell’esposto. Visibilmente preoccupati, i due poveri diavoli hanno risposto che l’unica verità era quella appena detta e che l’altra cosa certa dell’esposto erano le loro firme.

Quella sera stessa lasciai il carcere e, salutati i compagni di Napoli, con Silvio Messinetti, Ciccio Caravelli e i compagni di Isola partimmo per Crotone.

All’uscita del carcere mi è stato consegnato un plico contenente la “Prodigiosa Storia dell’Umanità”, di Andrè Ribard, e un messaggio di saluti di una giovane coppia di compagni inglesi di passaggio da Napoli.

P.S.: nessuno mi ha risarcito per danni, nè alcuno ha mai sentito il bisogno di scusarsi per quella “caragnota”. Il solo che lo ha fatto è stato Salvatore, il più anziano dei due poveri cristi: non sapeva leggere e scrivere e la denuncia l’aveva firmata con una sua croce.