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Laboratorio Marchesato

” Pasquale Poerio “Il Movimento contadino nel Marchesato

Piove da stanotte con raffiche di vento gelide e violente e le strade sono fiumi di acqua che scorre a valle verso le campagne che ci separano dal bellissimo mare di Cannella e Capo Rizzuto.

E’ una giornata d’inverno decisamente molto brutta; spostarsi da un punto all’altro del paese non è facile, ma la sala “Carnì” , sobriamente addobbata con manifesti e bandiere, è piena di gente venuta anche da Catanzaro, dal Marchesato e da Crotone per la manifestazione che il partito dei democratici di sinistra ha organizzato per ricordare il compagno Pasquale Poerio, già sindaco e cittadino onorario di Isola Capo Rizzuto, scomparso recentemente.

Nei racconti e nelle testimonianze dei compagni c’è solo spazio per sentimenti di rammarico e di gratitudine: il ricordo che hanno di Pasquale è il ricordo del compagno di strada, dell’amico della porta accanto, alla quale poter bussare per un consiglio, del referente politico, dell’amministratore probo che si è speso per costruire una prospettiva di cambiamento e di sviluppo, per accrescere nelle persone e nella comunità la voglia di tolleranza e l’orgoglio di riappropriarsi del diritto di essere protagonisti del proprio destino.

Rosa Maria, la compagna di Pasquale, è visibilmente commossa, sembra impacciata e confusa come una ragazzina al suo primo appuntamento importante: evidentemente quegli apprezzamenti di stima, di affetto e di simpatia verso Pasquale se, per un verso, la rallegrano, gli danno pace, la confortano, per l’altro gli rendono ancora più difficile l’idea di rassegnarsi a quella morte iniqua e del tutto imprevedibile che ha segnato la fine di una storia d’amore, di complicità e d’amicizia, molto bella.

La morte è veramente iniqua, insolente, strampalata; arriva come sempre austera ma raramente al momento giusto: né quando si desidera perché non si ha più voglia di niente; perché la vita non è più nient’altro che solitudine, sofferenza, noia, un peso è solo un povero peso che si trascina indifferente senza più stimoli per apprezzare il tempo che resta, le meraviglie della natura, il profumo e le movenze di una bellissima donna che ti passa accanto; per commuoversi rileggendo l’ultima lettera d’addio del giovane poeta catalano alla sua donna prima di morire nelle carceri, assassinato dagli sbirri di Franco, o ascoltando le suggestive ballate di Fabrizio De Andrè contro la guerra; senza più desiderio di sfogliare un libro e lasciarsi coinvolgere dalle storie raccontate da Cesare Pavese, Giorgio Bassano, Alberto Moravia o Leonardo Sciascia; senza più la forza di indignarsi, di ribellarsi e lottare contro la povertà abissale dei poveri o la ricchezza smisurata dei ricchi; né quando giunge come l’avresti preferita, nel vivo di una battaglia per i diritti umani o in una splendida giornata di festa e di lotta per la pace, ma, al momento sbagliato, senza lasciarti nemmeno il tempo di abbracciare la tua donna, o il vecchio compagno che avevi perduto di vista e che ora ritrovi in un teatro stracolmo di gente; di stringere la mano al leader del più grande sindacato italiano; di riempirti gli occhi e commuoverti per la visione di quelle bandiere rosse che simboleggiano la speranza, il bisogno di riscatto degli oppressi sparsi per il mondo; di salutare la folla gioiosa, raccogliere i loro applausi ed emozionarti ancora una volta, anche se sai che potrebbe essere l’ultima.

E quel mercoledì di novembre che, ha posto fine alla esistenza di Pasquale, non si può dire che non fosse una splendida giornata di festa e di lotta, se migliaia di lavoratori, provenienti da ogni parte della Calabria si sono dati appuntamento a Catanzaro nel Teatro Comunale per tracciare le linee di sviluppo dell’azione sindacale avviata con lo sciopero generale e partecipare all’inaugurazione della nuova sede regionale della C.G.I.L..

E’ stata una grande manifestazione di popolo, ricca di motivazioni ideali e di calore umano, e non solo per la significativa presenza di Guglielmo Epifani, il nuovo segretario generale della più importante organizzazione sindacale italiana. Con i quadri dirigenti del sindacato calabrese c’erano tantissimi lavoratori dei vari settori produttivi, della funzione pubblica, della scuola e dei pensionati; numerosa anche la partecipazione delle donne, dei rappresentanti delle forze politiche della sinistra e dell’associazionismo; e poi ancora centinaia di ragazzi e ragazze molto combattivi e pieni di entusiasmo con striscioni e bandiere, impegnati a scandire uno dopo l’altro slogan contro la guerra, la riforma scolastica della Moratti e la politica del Governo Berlusconi.

Peccato che la “Vecchia Signora”con Pasquale sia stata particolarmente ingenerosa negandogli la soddisfazione di godersi quella straordinaria giornata di festa, testimonianza di un passato di lotte e di sacrifici ma anche di profonde trasformazioni che hanno mutato l’assetto economico e sociale e arricchito la vita interiore dei lavoratori e della gente di Calabria di nuova consapevolezza e di nuova solidarietà. Dopo le lotte per la terra, e non solo per la terra, ma anche per una migliore qualità della vita, che hanno coinvolto migliaia di persone, diverse tra loro per condizione sociale e appartenenza politica, malgrado tutto e in quel tutto ci sono le delusioni e le sconfitte che ancora bruciano sulla nostra pelle, nelle campagne e nelle contrade del Marchesato, nulla è più come prima. Ora sulle terre del latifondo al posto dei poveri cristi che per secoli “hanno stentato la loro vita in una tragica vicenda tra lunghi periodi di rassegnazione e poi, ad intervalli di tempo, scoppi terribili di collera selvaggia, che veniva puntualmente repressa dalla feroce reazione poliziesca, la cui eco si spegneva in una rassegnazione ancora più disperata”, ci sono uomini e donne liberi, consapevoli dei loro diritti di persone, che lavorano e producono ricchezza.

Dubito che sia la fatalità a determinare in modo ineluttabile gli eventi della vita; comunque penso che se Pasquale avesse avuto la possibilità avrebbe scelto di morire sul “campo”, tra la gente, possibilmente in un giorno come quello, di festa e di lotta. Chi ha avuto modo di conoscerlo sa che non ha mai fatto nulla per sottrarsi all’idea di correre sempre e ovunque ad ogni “chiamata”; di evitare il peggio, neanche quando gli acciacchi lo avevano reso vulnerabile: apparire ed essere per Pasquale era molto di più che un dovere, era una condizione di vita e qualunque altra cosa lo avrebbe rattristato, fatto sentire in colpa.

Negli ultimi tempi non ha mai disertato un solo appuntamento: dalla partecipazione al dibattito che si è svolto all’Istituto “Sandro Pertini” di Crotone sulla questione agraria nel Crotonese, alla manifestazione di Santa Severina per il cinquantesimo anniversario delle prime assegnazioni ai contadini delle terre espropriate dall’Opera Sila; dalla marcia a Fragalà per ricordare l’eccidio di Angelina Mauro, Giovanni Zito e Francesco Nigro alla manifestazione del teatro comunale di Catanzaro, dove si è conclusa tragicamente la sua sfida con la vita.

Dalla marcia di Fragalà alla manifestazione di Catanzaro erano appena trascorsi solo sette giorni !

Tracciare un profilo di Pasquale parlamentare, dirigente politico e sindacale o anche solo di amministratore comunale, non è facile; e comunque non sarò io a farlo. A me piace ricordarlo per quella sua smisurata voglia di vivere, fare, trovarsi con gli altri, che si portava dentro come un “vizio assurdo”.

Pasquale in un certo senso era l’espressione più significativa della migliore tradizione contadina; uno degli ultimi esemplari di un ceto politico in via di estinzione (pragmatico, riservato, geniale, tollerante e ambizioso quanto bastava, esageratamente orgoglioso della sua “diversità” ); certamente quello che più di tanti altri ha praticato quasi ossessivamente la via dell’esempio come specchio della sua immagine, del suo modo di essere e del suo agire.

Era la proiezione di bisogni veri ed elementari come la dignità, un pezzo di terra o un lavoro per sopravvivere, l’acqua per dissetarsi e la legna per riscaldarsi durante l’inverno; una delle voci più familiari di quel vasto mondo di braccianti e contadini poveri che l’aveva “prodotto” ed eletto a leader; il protagonista di quella straordinaria campagna sull’uso plurimo delle acque del Neto – Tacina – Passante, che ha posto e riproposto sempre e ovunque, con incredibile passione anche quando si parlava d’altro. Ora nel vecchio marchesato l’acqua abbondante dell’invaso di Sant’Anna è fattore molto importante di sviluppo e di benessere per l’agricoltura, il turismo, la zootecnia e l’industria di trasformazione.

Non capita a tutti di restare ininterrottamente sulla scena politica per oltre sessant’anni, senza mai ferire la propria immagine, disertare un solo impegno importante o meno che fosse, sentire il bisogno di fermarsi, voltarsi indietro e dire basta, sono stanco, ho bisogno di riflettere, di riordinare le idee, mi fermo. L’avevano già fatto in tanti e qualcuno si era anche perso per strada: lui invece no ! E’ andato avanti fino alla fine senza mai un ripensamento, un segno di cedimento, una parola di protesta per contestare le obiezioni critiche dei compagni: al massimo una occhiata sorniona accompagnata da una lieve contrazione del volto e da un impercettibile movimento delle labbra, simile ad una smorfia di collera.

Eppure erano tempi assai difficili e il partito non era certo una isola felice: erano gli anni del riflusso delle grandi lotte di rinascita che avevano dato voce alla Calabria e amplificato quel suo smisurato bisogno di libertà, di progresso e di giustizia sociale; del più grande esodo del dopo guerra che ha spopolato le campagne e i paesi della Calabria; del fallimento della riforma agraria; dell’anticomunismo viscerale e della ripresa del “cammino della speranza”: milioni di persone, come avviene purtroppo anche oggi per altri milioni di esseri umani, che abbandonavano tutto, le povere case, gli affetti, tranne la speranza e con l’indirizzo di qualche amico in tasca partivano alla ricerca di una terra più generosa, di un posto dove potersi fermare e offrirsi per un lavoro qualunque. Ma furono anche gli anni di avvenimenti epocali, il Ventesimo congresso del PCUS, l’insurrezione popolare ungherese, l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle forze armate del patto di Varsavia, che stravolgeranno la geografia politica del mondo; delle “mode” , del boom economico, della scolarizzazione e delle comunicazioni di massa, in una parola delle grandi trasformazioni economiche, sociali e culturali, che, nel tempo avrebbero modificato i costumi, la qualità della vita, il modo di pensare e di essere della gente, i gusti e anche il linguaggio; degli interrogativi angoscianti, che per molto tempo restarono senza risposta, sui perché di quelle rivolte di popolo represse nel sangue in Paesi che molti di noi pensavano fossero il massimo di libertà e di democrazia e della consapevolezza che l’iniziativa e la lotta, per quanto appaganti, non bastavano più a riempire i vuoti di fiducia e a placare l’ansia che quelle tragedie umane e politiche avevano prodotto dentro di noi.

Il confronto nella sinistra, tra le forze politiche e sociali e nel mondo della cultura durò a lungo e fu assai aspro e difficile; e anche nel partito del tanto discusso “centralismo democratico” non mancarono le dispute con i primi distinguo sulla linea politica, le prime smagliature ideologiche, le prime differenziazioni tra i sostenitori del centro di Togliatti, della destra di Giorgio Amendola e della sinistra di Pietro Ingrao, i primi abbandoni di compagni, le rivalità tra “conservatori” e “innovatori”, tra vecchi e giovani e nemmeno le piccole gelosie.

Pasquale era piuttosto dogmatico, ma come “modello” di lotta politica non era il massimo, anzi le sue propensioni poco ortodosse e plebee, quasi paternalistiche, di affrontare i problemi e rapportarsi con gli altri, che risentivano certamente della vivacità, dell’impazienza e della passione politica propria dei giovani, e perché no ? anche delle posture della furbizia contadina; e quegli atteggiamenti amletici e irritanti, che rasentavano la reticenza, anche su questioni politiche molto importanti di principio, stampati su quel faccione enorme ed impenetrabile come una maschera di ferro che non lascia trasparire emozione lo esponevano a malintesi e supposizioni che, per la verità, non avevano motivo di essere: Pasquale respirava quell’aria e avvertiva il disagio, tuttavia non cambiava fidandosi del buon senso dei compagni.

Non credo che lo facesse per presunzione: Pasquale non sapeva fingere; era come un libro aperto dove chiunque avrebbe potuto frugare e trovare le risposte che cercava. Il tempo, che come al solito registra e sedimenta ogni cosa ha chiarito che quella sua “diversità”, fatta di piccole debolezze e grandi esempi, radicata così profondamente tra la gente, come recentemente si è visto a Isola e poi ancora a Crotone, nell’aula magna del Liceo Classico, che Pasquale aveva frequentato da studente, era una ricchezza e che il gruppo dirigente di un partito, lungimirante e coeso, aveva saputo cogliere ed investire proficuamente. Anche noi, che della vicenda umana e politica di Pasquale, non siamo stati testimoni indifferenti, diciamo che a quella diversità , strada facendo, più che abituarci ci siamo affezionati.

Pubblicato su Ora Locale n.32

” Pitagora e il tabù delle fave “Lo studio affrontato dall’antropologo Giovanni Sole nel testo: Il tabù delle fave. Pitagora e la ricerca del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, rimanda alla filosofia pitagorica sviluppatasi tra il VI e il V secolo a.C. L’autore si sofferma in particolare sulla ricerca del significato di una proibizione che il filosofo stesso all’interno della sua scuola, impose ai suoi discepoli: quello di astenersi dal mangiare o toccare fave, un tabù che, appunto come tale, risulta ancora oggi inspiegabile, misterioso ed oscuro.
La scuola pitagorica era legata ad elementi di natura religiosa e si basava su rigide regole che obbligavano alla segretezza. La dottrina doveva essere trasmessa oralmente da maestro a discepolo, difatti nulla ci è stato lasciato di scritto e tutto rimane avvolto nel mistero. ” “
Il tabù delle fave, è un “pretesto” per riflettere sul perché l’uomo crea i tabù in genere, vi nasconde dei significati e li esprime in un linguaggio simbolico, criptico, non accessibile agli altri. Il testo è un percorso verso la ricerca dei molteplici significati che vi sono racchiusi: l’espressione di un inconscio sociale, una sapienza primordiale; nei tabù gli uomini vi si proiettano, vi trasferiscono ansie e desideri in base ai loro bisogni. Essi sono costruzioni degli uomini legati all’ambito magico-religioso, ma non si distaccano dalla realtà, anzi, vi si riferiscono, sono veicolo di aspetti profondi dell’ideologia sociale, espressione psicologica, rappresentazione del logos, ma anche del mithos, espressione di un pensiero teogonico e cosmogonico. Per loro natura i tabù sono una realtà culturale estremamente complessa che ha diverse prospettive e che richiede una molteplicità di letture e di interpretazioni, ciascun suo elemento rimanda all’altro investendo tutti gli ambiti umani e sociali mutevoli nel corso dei secoli.
In ogni capitolo Giovanni Sole espone le diverse interpretazioni elaborate sulla creazione del tabù delle fave e dimostra come ognuna di esse potrebbe avere un proprio fondamento: può essere infatti valida l’ipotesi che i tabù pitagorici facevano parte di una mentalità superstiziosa, magica, religiosa ed etica, frutto del terrore dell’uomo per il soprannaturale, dell’esistenza che nel mondo della natura vivessero potenze demoniache. “Le fave erano infatti considerate piante magiche e infernali, dotate di una potenza misteriosa e cosmica, sede di esseri soprannaturali in grado di influenzare negativamente o positivamente la vita degli uomini, degli animali e delle piante”. Le fave erano, inoltre, oggetto di tabù, perché considerate pianta degli dei degli inferi e cibo dei morti; infrangere il divieto significava mettere in moto contro di sé forze misteriose che punivano i trasgressori o con l’oggetto tabù o con disgrazie. Altra ipotesi è che la proibizione delle fave derivasse da un certo legame religioso di matrice orfica. Pitagora, credeva che l’anima, sepolta nel corpo per i suoi peccati e immersa nella materia come in una prigione, poteva progressivamente ricongiungersi alla sua origine sacra. Dunque, attraverso un graduale processo di perfezionamento del corpo e dello spirito, poteva passare ad un livello superiore di esistenza e di conoscenza sino a somigliare agli dei. La privazione alimentare, compresa quella di non mangiar fave, era uno dei comandamenti che i pitagorici dovevano rispettare per raggiungere il livello di perfezione e la vicinanza tra la condizione umana e divina.
L’origine del tabù delle fave poteva derivare anche da ragioni di prevenzione sanitaria; esse erano ritenute tossiche e capaci di provocare quella terribile malattia che nell’Ottocento sarà chiamata «favismo», anemia emolitica acuta. Altra interpretazione è che i tabù imposti da Pitagora come regole di vita ai suoi discepoli, fungessero da vero e proprio strumento educativo. Questi sono solo alcuni esempi delle diverse interpretazioni sul divieto delle fave di Pitagora che anche se apparentemente illogiche e misteriose , non sono molto distanti dal nostro pensiero e risultano strettamente legate alle diverse realtà dell’esperienza umana.
Per comprendere il «mistero» del tabù delle fave è necessario inquadrarlo all’interno del pensiero dualistico di Pitagora che rifletteva l’opposizione fondamentale tra il bene e il male: quello fra limite e illimitato. Egli concepiva l’universo come un tutto armonico e ordinato, fatto di proporzione, numero, forma, limite, e convinto che la società del suo tempo fosse in balìa del disordine e del libero arbitrio, proponeva di fondare un nuovo codice morale (attraverso i divieti), come meccanismo logico per ordinare il reale contraddittorio. Il suo insegnamento doveva mirare alla pratica della misura nei riguardi degli istinti, dei desideri e delle pulsioni corporee; all’individuazione di ciò che era lecito e ciò che era illecito, di ciò che era puro e ciò che era impuro, ciò che era sacro e ciò che era profano. L’obiettivo era quello di tradurre il caos in armonia ed equilibrio, un cosmo razionalmente ordinato fatto di parti diverse. Attraverso la pratica della filosofia l’uomo si prepara alla salvezza dell’ anima che con la conoscenza si purifica e si libera dal suo continuo errare, sino a raggiungere il divino da cui proviene.

Pubblicato su Ora Locale n.38