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C'E' SEMPRE UN MODO DIVERSO DI VEDERE LA REALTA'

Laboratorio Marchesato

” Il Canto dei “nuovi migranti”  

Ce ne andiamo
Ce ne andiamo via,

Dal torrente Aron
dalla pianura di Simeri

ce ne andiamo
con dieci centimetri
di terra secca sotto le scarpe
con mani dure con rabbia con niente.

Vigna vigna
fiumare fiumare
doppiando capo Schiavonea.

Ce ne andiamo
dai campi d’erba
tra il grido
delle quaglie e i bastioni

Dai fichi
piu’ maledetti
a limite
con l’autunno e con l’Italia

Dai paesi
piu’ vecchi piu’ stanchi
in cima
al levante delle disgrazie

Cropani
Longobucco
Cerchiara
Polistena
Diamante
Nao
Ionadi
Cessaniti
Mammola
Filandari…

Tufi
Calcarei
immobili
massi eterni
sotto pena di scomunica.

Ce ne andiamo
rompendo
Petrace con l’ultima dinamite.
Senza
sentire
piu’ il nome Calabria
il nome disperazione.

Troppo tempo
s iamo stati nei monti
con un trombone fra le gambe.
Adesso
ce ne scendiamo
muti per le scorciatoie.

Da Conflenti
dalle Pietre Nere da Ardore
Dal sole di Cutro
pazzo sulla pianura
dalla sua notte, brace di uccelli.

Troppo tempo
a gridarci nella bettola
il sette di spade
a buttare il re e l’asso.
Troppo tempo
a raccontarci storie
chiamando onore una coltellata
e disgrazia non avere padrone.

Troppo
troppo tempo
a restarcene zitti
quando bisognava parlare, basta.

Noi
vivi
e battezzati
dannati.

Noi violenti
sanguinari
con l’accetta
conficcata
nella scorza
dei mesi degli anni.
Noi
morti
ce ne andiamo
in piedi sulla carretta.
Avanzano
le ruote cantano i sonagli verso i confini.

Via!
Via
dei feudi
dagli stivali dai cani
dai larghi mantelli.

Ussahe’…
Via
via!
Via dai baroni.
I Lucifero
I conti Capialbi
I Solima gli Spada
I Ruffo
I Gallucci.

Usciamo
dai bassi terranei
dal sudario
dei loro trappeti
dai parmenti
della vendemmia
profondi
a lume di candela
e senza respirazione.

Via dai Pretori
dalla polizia
dagli uomini d’onore.
Non chiamateci
non richiamateci.

E’ scritto
nei comprensori
E’ scritto
nei fossi nei canali
E’ scritto
in centomila rettangoli
alto
su due pali
Cassa del Mezzogiorno
ma io non so che cosa
si stia costruendo
se la notte
o il giorno.

Ci sono raffiche su vecchie facciate che nessuno leva: l’occhio
del Mitra
e’ piu’ preciso
del filo a piombo della Rinascita.

Addio,
terra.
Terra mia,
lunga
silenziosa.
Un nome
non lo ebbe
la gioventu’
Non stanchiamoci adesso
che ci chiamano col proprio cognome.

Noi

Noi
ce ne siamo
gia’ andati.
Dai Catoi
dagli sterchi orizzonti.

Da Seminara
dalle civette di Cropalati.

Dai figli
appena nati
inchiodati nella madania
calati dalle frane,
dall’Aspromonte
dei nostri pensieri.
Spegnete
le lampadine della piazza.

Scordiamoci
delle scappellate
dei sorrisi
dei nomi segnati
e pronunciati per trentasei ore.

Cassiani
Cassiani
Cassiani

Cassiani
Foderaro Galati
Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi
Cassiani
Cassiani
La croce
sulla croce,
diceva l’arciprete.
E una croce
sulla croce,
segnavano le donne.
Andavano
e venivano.
Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi

E’ stato
sempre silenzio.
Silenzio
duro
della Sila
delle sue nevicate a lutto.

E’ stato
il pane a credenza
portato
sotto lo scialle
all’altezza del cuore.
Sono stati
i nostri occhi stanchi
guardando
le finestre illuminate della prefettura.

Carabinieri
fermatevi.
Guardate,
giratevi
non c’e’ nemmeno un cane.
Siamo
tutti lontani
latitanti.

Fermatevi.
Restano
gli zapponi
dietro la porta.
I cieli.
I vigneti.
La pietra
di sale sulla tavola.

I vecchi
che non si muovono
dalla sedia, soli
con la peronospera nei polmoni.

Le capre
la voce lunga
degli ultimi maila scananti.
L’argento
a forma di cuore, nella chiesa.
Le ragnatele
dietro i vetri, le madonne.
La ragnatela del Carmine
la ragnatela di Portosalvo
la ragnatela della Quercia.
Restano le donne
consumate da nove a nove mesi
con le macchie
della denutrizione
della fame.

Le addolorate
le pieta’ di tutti gli ulivi.
Lavando
rattoppando
cucinando su due mattoni
raccogliendo
spine e cicoria.

Cancellateci dall’esattoria.
Dai municipi
dai registri
dai calamai
della nascita.
Levateci

Scioglieteci
dai limoni
dai salti
del pescespada.
Allontanateci
da Palmi e da Gioia.

Noi
vivi
Noi
morti
presi
e impiccati
cento volte
ce ne siamo gia’ andati
staccandosidai rami,
dai manifesti della Repubblica.

Di notte
come lupi
come contrabbandieri
come ladri.

Senza un’idea dei giorni
delle ciminiere degli altiforni

Siamo
in 700 mila
su appena
due milioni
Siamo i marciapiedi
piu’ affollati.
Siamo
i treni
piu’ lunghi.
Siamo le braccia
le unghie d’Europa.
Il sudore Diesel.
Siamo
il disonore
la vergogna dei governi.

Il Tronco
di quercia bruciata
il monumento al Minatore Ignoto.

Siamo
l’odore
di cipolla
che rinnova
le viscere d’Europa.

Siamo
un’altra volta
la fantasia
il primo giorno di scuola
senza matina
senza quaderno
senza la camicia nuova.

Toglieteci
dalle galere.
Non ubriacateci.

Liberateci
dai coltelli di Gizzeria
dal sangue dei portoni.
Non chiamateci d
a Scilla
con la leggenda
del sole
del cielo
e del mare.

Siamo
bene legati
a una vita
a una catena di montaggio
degli dei.
Milioni di macchine
escono targate Magna Grecia
Noi siamo
le giacche appese
nelle baracche nei pollai d’Europa.

Addio,
terra.
Salutiamoci,
e’ ora.
di Franco Costabile