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Laboratorio Marchesato

” I privilegi dei bonzi del lavoro “Dal Foglio del 20 aprile

Il sindacato ha 12 milioni di tesserati, ma il 78 per cento degli italiani non lo ama
Le caste si moltiplicano. A quarant’anni dal ‘68, quando sotto accusa era la casta dei “mandarini” universitari, ora la polemica contro le consorterie autoreferenziali si concentra contro i politici e – ora con il libro di Stefano Livadiotti (L’altra casta, Bompiani, 15 euro) – attacca i sindacalisti.
L’analisi della verbosità, dell’invadenza, dell’inefficacia, dello spaesamento (nel senso di estraneità ai problemi del paese reale), della chiusura corporativa e persino dell’ignota potenza finanziaria del sindacato italiano sono trattati da Livadiotti con l’agilità di linguaggio del cronista, che preferisce citare dati e numeri, sondaggi e inchieste, piuttosto che addentrarsi in complesse interpretazioni sociologiche o storiche.
Vale la pena di ripercorrere i cinque temi scanditi nei capitoli del saggio, si direbbe i cinque capi d’accusa della requisitoria, anche per riscontrare come quegli stessi temi abbiano inciso nelle vicende italiane, comprese le recenti consultazioni elettorali, e da quali radici abbiano tratto origine.

Il sindacato impopolare ” “
Le confederazioni vengono percepite dalla stragrande maggioranza dell’opinione popolare come una presenza inutile se non dannosa: secondo le inchieste citate da Livadiotti addirittura il 78,3 per cento della popolazione li vede “come il fumo negli occhi”. Questo nonostante, o forse a causa, dell’estesissima copertura mediatica degli interventi dei tre leader che parlano di tutto, nelle 1.485 esternazioni meticolosamente conteggiate nel corso di un solo anno. Il divario tra popolarità reale e presunzione dei vertici pone il problema, centralissimo per organizzazioni sindacali, della rappresentanza. Com’è noto, dai dati delle iscrizioni alle confederazioni si ricava che, sui quasi 12 milioni di tesserati, la metà sono pensionati, mentre quasi un quarto dei lavoratori attivi appartiene al pubblico impiego. Questo significa che la maggior parte degli iscritti al sindacato vive in condizioni che si ritengono al riparo del mercato e della concorrenza, il che spiegherebbe, pur senza giustificarlo, il ritardo accumulato dalle confederazioni nei confronti dei problemi della competitività, quelli decisivi per determinare la crescita o il declino del sistema produttivo. Da questo spaesamento di fondo derivano le conseguenze denunciate da Livadiotti: la concertazione puramente verbale, l’abbandono della rappresentanza di giovani e precari, la difesa dei “fannulloni” e la mancata tutela salariale del lavoro produttivo, la disseminazione di sigle sindacali e di contratti nazionali (che nessuno sa esattamente neppure quanti siano) e degli scioperi inutili o puramente simbolici, la colpevole disattenzione verso la sicurezza del lavoro.

Il finanziamento distorsivo
Lo squilibrio tra il panorama della distribuzione dei lavoratori nell’apparato produttivo e quello registrato nel tesseramento delle confederazioni è determinato anche dalle forme specifiche di finanziamento del sindacato. La massa di circa 20 mila funzionari, ai quali vanno aggiunti i “distaccati”, provenienti dalle grandi aziende e dalla pubblica amministrazione, rappresenta un costo elevato, cui si fa fronte con il tesseramento e i servizi erogati. Il tesseramento, basato su un bizantino sistema di deleghe dalle quali è quasi impossibile uscire, non è più come in passato un momento di verifica della rappresentatività. Una volta firmata la delega, magari per ottenere un servizio di assistenza fiscale o previdenziale, il lavoratore o il pensionato non ha praticamente più modo di liberarsene. La disdetta si può dare solo in certi giorni, prevede un iter complesso, il che scoraggia molti che pure non sono contenti di ricevere una detrazione sindacale sulla busta paga o sulla pensione. L’attribuzione alle confederazioni di una funzione di consulenza fiscale ufficiale, in condizioni di sostanziale monopolio (pur bocciato dall’Europa perché lesivo dei principi di libera concorrenza), come quella esercitata sulle questioni previdenziali che si basa sugli elefantiaci organismi territoriali dell’Inps dominati dai sindacati, rappresenta una forma surrettizia di finanziamento pubblico, che si raddoppia con la richiesta o almeno il pressante invito al lavoratore che chiede un servizio di iscriversi alla confederazione che lo gestisce. I Centri di assistenza fiscale, Caf, e i patronati, con il tesseramento indiretto che promuovono e con i contributi pubblici che lo stato e l’Inps versano per la loro attività, sono probabilmente la maggiore fonte di finanziamento delle confederazioni, il che le porta inevitabilmente a trasformarsi da rappresentanti dei lavoratori in una sorta di burocrazia parastatale. E a essere considerate tali da lavoratori trattati da clienti cui fornire servizi e non da soggetti da rappresentare.

La difesa del privilegio
Naturalmente i sindacalisti non hanno trascurato di tutelare gli interessi di una particolare categoria: la loro. Livadiotti esamina la serie di leggi e leggine che hanno consentito e tuttora consentono a sindacalisti, soprattutto a quelli “distaccati” dalle grandi imprese e dalla pubblica amministrazione, di ricevere lauti assegni previdenziali o altre regalie. Dalla legge del 1974 firmata dall’ex vice segretario della Cgil Giovanni Mosca, che in sei anni ha fornito una pensione senza copertura contributiva a circa 20 mila funzionari sindacali (e politici) col costo per l’Inps di dieci miliardi di euro fino ad oggi si sono susseguiti provvedimenti onerosi di autotutela dei sindacalisti.
Inoltre la pratica di distacchi retribuiti e dei permessi sempre retribuiti per l’attività sindacale, che nel complesso interessano ben 700 mila persone, determina un altro costo assai pesante per le grandi imprese e per la pubblica amministrazione. Inoltre la disseminazione di organismi nei quali è prevista la presenza, ovviamente retribuita, di rappresentanti delle confederazioni, ha assunto dimensioni ragguardevoli, almeno il 7 per cento degli amministratori di enti pubblici. Alle circa 26 mila poltrone occupate dai sindacalisti vanno aggiunti una serie di organismi paritetici con i rappresentanti di sindacati e aziende private, le camere di commercio, gli organismi decentrati del Cnel, senza contare la fitta rete di società partecipate dai comuni, dove un posto o meglio tre per i rappresentanti dei lavoratori si trova quasi sempre.

I nullafacenti del pubblico impiego
Com’è noto, da almeno dieci anni nessuno è stato licenziato nell’immenso caravanserraglio del pubblico impiego per scarso rendimento. Se ne dovrebbe dedurre che il rendimento della pubblica amministrazione è eccellente, ma tutti sanno che questo è il contrario della verità. Il fatto è che il pubblico impiego italiano è elefantiaco perché inefficiente, inefficiente perché elefantiaco. E’ qui che le confederazioni (e i sindacatini autonomi) hanno il loro punto di forza, visto che il tasso di sindacalizzazione dei dipendenti pubblici è circa il doppio di quello dei dipendenti delle aziende private ed è più alto al crescere del livello gerarchico. All’Inps, dei 43 dirigenti generali, solo uno non è iscritto ai sindacati. La distribuzione territoriale del pubblico impiego è assai diversificata, in Lombardia c’è un dipendente dell’amministrazione centrale ogni 10 mila abitanti, in Abruzzo 45. Più scarsa è l’attività economica, più personale pubblico c’è ad assisterla. Confagricoltura ha calcolato che, su un milione e mezzo di addetti all’agricoltura, ci sono un milione e 200 mila dipendenti pubblici che si occupano di agricoltura.
Naturalmente a tutte queste storture ha collaborato attivamente il clientelismo, ma l’azione del sindacato, che difende strenuamente i fannulloni nella pubblica amministrazione rappresenta il freno decisivo che impedisce ogni azione di disboscamento e rinnovamento.
D’altra parte la forza contrattuale concentrata in quest’area ha fatto si che le retribuzioni del pubblico impiego aumentino in media del 5 per cento l’anno, mentre quelle dell’industria e dei servizi privati ristagnano. Se poi le assenze per “malattia” nel pubblico impiego sono tre volte più consistenti che nel settore privato, il sindacato si offende se si parla di assenteismo.

Come far fallire Alitalia
Livadiotti esamina la situazione in alcune società che sarebbero private ma che per il ruolo che vi esercita la proprietà pubblica subiscono una pressione sindacale, delle confederazioni e ancor più del pulviscolo del sindacalismo autonomo, insopportabile. Leggere, una dopo l’altre, le vicende dell’Alitalia, delle Ferrovie, delle Poste, dell’Inps. dell’Enav, l’ente per il controllo dei voli, e persino della Banca d’Italia fa davvero impressione. Sembra di leggere un romanzo di Gogol, con i sindacati al posto delle gerarchie zariste. D’altra parte se, come pare, gli amministratori di Aeroflot hanno detto di aver trovato nel sindacalismo della compagnia di bandiera italiana comportamenti peggiori di quelli dei sindacati sovietici, c’è davvero da preoccuparsi. Manca un capitolo sulla Rai, che probabilmente non sarebbe privo di spunti interessanti, o magari su quel che capita in qualche grande giornale di informazione.

Lo spazio stretto di un’autoriforma
Le reazioni dei diretti interessati alle documentate denunce sono state scontate e burocratiche. Criticare i sindacati equivale ad attaccare i lavoratori, ma questa identificazione, che presuppone un sistema limpido di rappresentanza, è esattamente il punto in discussione. La domanda che viene spontanea è se ci sia ancora lo spazio per un’autoriforma del sistema di potere confederale, oppure se questa sia un’illusione simile a quella che i comunisti occidentali nutrivano nella possibilità di autorigenerazione del sistema sovietico. Il problema è sempre lo stesso, la rappresentanza del lavoro, quello vero, che viene sostituita dalla strenua difesa dei fannulloni. L’efficacia inesorabile di questa difesa dà la dimensione dello strapotere sindacale (e della complice pavidità delle controparti), ma anche quella del distacco delle confederazioni dalla loro funzione specifica e del loro spaesamento.

20/04/2008
Sergio Soave