Introduzione
Una stagione della vita in cui niente era ciò che appariva ma tutto era ciò che serviva.
A San Mauro Marchesato, un piccolo paese del Marchesato Crotonese, il cambiamento arrivò verso la metà degli anni Cinquanta in concomitanza del primo forte flusso migratorio verso le città del Nord Italia e del Nord Europa, e dei primi esigui risultati dell’assegnazione delle terre.
Il paese era facile da descrivere nella sua elementare geografia fisica e sociale: una serie di case baronali sul corso principale, tre chiese nemmeno tanto pretenziose, una serie di casette a schiera intorno alle chiese principali e tante baracche immerse nelle piccole “vigne”.
Fino ad allora i paesani erano rimasti ubbidienti alle attività, ai tempi e alle modalità, stabiliti dalla regola del “prima che il sole sorga fino al suo tramonto, imposta prima che dai cicli naturali, dalla necessità di sopravvivere del poco che la terra riusciva a fruttare.
Il sole rappresentava l’orologio biologico di una natura di cui le persone facevano parte integrante; il sole scandiva le fasi di una giornata e di una vita che non aveva, e non poteva avere un orizzonte più ampio di quello che l’astro riusciva disegnare in cielo.
E così: in casa a mangiare o a dormire, oppure in bottega a lavorare il legno, il ferro il lino, i vimini.
Ad eccezione, dei palazzi baronali, del municipio, delle chiese, della scuola elementare, della casa, che ospitava il medico condotto, e la farmacia, il resto, i campi, il lavatoio e le case avevano mantenuto i ritmi millenari che la tradizione e il potere dei capi famiglia avevano provveduto a tramandare da secoli e che da sola garantiva a quella terra la possibilità di reggere il peso delle anime che vi risiedevano.
Una tradizione che aveva contribuito a irrigidire il paese nella sua identità, concentrata in pochi artigiani e in ancor meno piccoli proprietari terrieri, preoccupati di difendere le differenti gerarchie paesane dal resto, estraneo, contadino, bracciante e “tamarru”.
Una tradizionale impotenza riflessa nella acor oggi stanca toponomastica delle strade e dei quartieri che per non stancare oltre il dovuto la fantasia si preferiva collegare alla destinazione d’uso delle terre strappate alla coltivazione per costruirci sopra le misere case in creta e paglia col tetto di fascine sormontate da “ceramidi”.
I “vigni”, “Santa Lucia”, ” a coniceddra” “i timpuni”, “u vignali”, “a lustra”, “a carrera”, “a serrajiala”, “u gualcii”, “u ponti i ciccioni” “u scifu”, “l’acqua chi chiova” sono i nomi che stanno ancora lì a testimoniare la volontà di radicare nei secoli un’appartenenza , una radice difficile da estirpare anche quando a qualcuno venisse in mente di provarci.
D’inverno, nelle giornate di pioggia o nelle rare nevicate, il paese sembrava disabitato, nessuno sulle strade, le donne in casa davanti al focolare a cucinare, cucire, sferruzzare tessere, filare, insieme ai più piccoli e ai più vecchi; gli uomini e i ragazzini nelle “Varvirie, nelle “Forge”, dal “Mastradasciu” o, specialmente di sera, a giocare a carte nelle “putighi i du vinu”. I pochi che si avventuravano per le strade dovevano avere scarpe ben cucite e ferrate per poter sperare di ritornare a casa senza scivolare e inzaccherarsi più del dovuto.
Del resto, a parte le due illusorie strisce di pietre in fila che lungo i muri del corso principale davano l’illusione del marciapiede, poco era rimasto delle antiche “basule” che pure dovevano esserci state sulla strada, stante i piccoli rimasugli che, a mò di isole, ancora sopravvivevano in qualche parte della strada risparmiata dai carri e dagli animali.
Ci pensavano i bambini, scalzi e mal calzati, nella loro beata incoscienza e con il gusto dispettoso di marcare con il gesto una volontà di sopravvivenza e di esistenza, a evidenziare queste isole saltellando da una all’altra in una specie di gara a chi saltando raggiungeva la più lontana.
Gli uomini e le poche donne no! La fatica che avevano fatto per passare il “sivu” su quelle tomaie sempre più rattoppate e sempre meno originali, rendeva questi sempre guardinghi verso ogni occasione di rovina di quel lucido costoso quanto precario.
Le donne, in modo particolare, si vedevano di rado in qualsiasi stagione ma d’inverno difficilmente si allontanavano dalla “rua” se non per qualche incombenza straordinaria per la quale osavano arrischiare l’orlo della gonna e della sottogonna nella pozzanghera della strada. Senza contare il disagio di sentirsi osservate da quella fila di uomini che in fila davanti alle botteghe e sui marciapiedi erano pronti a misurare con gli occhi ciò che mai avrebbero potuto vedere se non nel privato del focolare domestico, e nemmeno lì, completamente svelato.
Con la bella stagione le attività maschili e femminili si spostavano sugli orti, nei campi e sulla “rua”, nella parte di strada antistante l’abitazione o allo “spuntuni”, il luogo del “commento” per eccellenza. Era questo, generalmente, lo sbocco della “rua” o, più modernamente vineddra”, sulla strada principale, dove ci si riuniva, ad ogni minimo stravolgimento dei ritmi consueti della vita quotidiana. Era qui che si fermava il mercante dopo aver annunciato con la consueta cantilena che era finalmente arrivato.
Era questo il confine tra la millenaria quotidianità contadina e il mondo esterno; a intervalli regolari, a orari prestabiliti, secondo un orologio naturale che era stabilito dalle reciproche convenienze e, molto spesso, dalle condizioni meteorologiche. Era questo il punto dove si venivano a sapere le notizie locali e non, dove si conoscevano gli ultimi ritrovati della tecnica moderna, dove si potevano ammirare i capi che a “Crotone” facevano tendenza tra le belle signore, e dove il “nailon” faceva morire d’invidia chi, per motivi economici, o anche per utilità, non sapeva ancora cosa fosse la mezza stagione. Il mondo, quello delle decisioni, quello dove si decideva il destino dei componenti la comunità, aveva uno spazio ben delimitato nella mente prima che nella geografia: dalla “coddra” alla “petra chiantata”. Era il luogo delle cose importanti, delle scadenze naturali: il matrimonio, la morte, la devozione “stagionale”.
“A gghjazza” era il regno degli uomini per tutto l’anno meno che per queste occasioni, quando, secondo un copione scritto nel DNA di tutti, la donna recitava finalmente la sua parte pubblica, prendeva possesso prepotentemente del territorio anche se con tutti i limiti imposti da un servaggio secolare a cui era pur sempre sottoposta. Rimanevano pur sempre in vigore le regole sociali che imponevano ruoli diversi e spazi diversi a seconda della zona di “residenza”, ma era pur sempre un modo per emergere da un anonimato che rasentava la morte civile. Non è che per gli uomini la situazione fosse del tutto diversa, ma se non altro il lavoro, le relazioni economiche e il corollario delle motivazioni che intorno a queste giravano, oltre alle necessità naturali dei preliminari della riproduzione e il ruolo di capifamiglia, li portava in più occasioni a superare il confine tra la “rua” e la gghjazza”.
Per tutto il resto questo era il regno dei “signori” e del corollario di personaggi che, per il loro ruolo amministrativo o per le competenze acquisite grazie alla loro “generosità”, potevano incedere con loro nello “spassiamiantu” lungo lo stretto corridoio tra i loro palazzi che in un eccesso di giacobinismo intellettuale si erano degnati di intitolare al popolo.
Per i signori la piazza, per i “bifolchi” il marciapiedi, i ponti o la “putiga”. La rottura di questa geometrica separazione avveniva solo per fatti straordinari o per gentile concessione del potere. Tutto questo non aveva alcunché di imposto o di subito. Era nell’ordine delle cose.
Era stato sempre così, era andato bene per secoli e non si riusciva nemmeno lontanamente a concepire un modo diverso di intendere le cose. Non aveva senso sovvertire ciò che Dio aveva creato ed era peccato mortale andare contro il volere di Dio.
È vero, qualcuno raccontava che in città tutto era diverso, ma non a caso la città era il luogo della perdizione. Era comunque un altro mondo dove chi era andato non era più tornato e se lo aveva fatto, era tornato diverso, “spiritato”, con idee “al di fuori di ogni criterio e raziocinio”. I pochi che in città avevano fatto fortuna la dovevano alla generosità dei loro padroni e alla loro guida illuminata. I giovani erano tornati dalla guerra e parlavano di cose strane, di libertà, democrazia, uguaglianza, della Russia; ma erano cose dell’altro mondo, del mondo dei cittadini: che cosa potevano entrarci con il mondo dei contadini.
Erano idee di gioventù, di una gioventù “toccata” dagli orrori della guerra e che aveva bisogno di tempo per rinsavire dagli insani propositi. Il tempo, la fatica, il tirare a campare di sempre, gli avrebbero tolto queste pazzie dalla testa. Anche perché, manifestando apertamente queste insensatezze in piazza, difficilmente si poteva trovare un caporale disposto a prenderti a giornata, e senza la giornata non si mangiava: la libertà non riempiva lo stomaco. Queste cose si potevano anche raccontare in casa perché era bello ascoltare notizie che ti facevano sognare come la storia dei “Paladini di Francia”. Ma favole erano e favole era meglio che rimanessero per il bene di tutta la famiglia.
Persino le lotte per la conquista delle terre, che pure aveva provocato morti e feriti nei paesi vicini, fu vissuta come qualcosa di inevitabile in questo territorio periferico della grande proprietà. Periferico sia in senso geografico che di valore: non era utile per nessuno difendere calanchi di krotaco dimenticati da Dio e dai Padroni. Certo, l’occupazione delle terre fu organizzata anche a San Mauro ma a “rimorchio” di altri paesi e di organizzatori sindacali che venivano da Crotone e soprattutto, senza scontro diretto con i “signori”, troppo occupati a difendere terre migliori. Le poche terre produttive erano già in mano dei pochissimi piccoli proprietari e ciò che rimaneva era poco appetibile per estensione e produttività.
Se scaramucce ci furono, fu più per eccesso di zelo di qualche comandante dei carabinieri che per la forte pericolosità e l‘entità del fenomeno. I nostri contadini si ritrovarono a svolgere un ruolo che li vedeva più come comparse che come protagonisti e sotto questo profilo si diedero da fare per alzare il numero dei partecipanti all‘“occupazione”, negli allarmati dispacci prefettizi. Alcuni, più coraggiosi, o più disperati, o forse, ancora, meno infettati dalla cultura atavica della rassegnazione, andarono a dare manforte agli organizzatori sindacali sulle terre migliori e furono poi questi che alimentarono l’epopea dell’occupazione nel nostro paese. In una contaminazione naturale nella tradizione orale gli avvenimenti si accavallarono in senso temporale e geografico finendo per diventare identici dappertutto con varianti marginali come i nomi delle zone e dei protagonisti. La vera rivincita si ebbe agli inizi degli anni cinquanta quando Castellana decise di ambientare nel nostro territorio la pellicola “Il brigante” sul tema dell’occupazione delle terre. I canoni fondamentali del Neorealismo italiano prevedevano l’uso di attori presi dalla strada e tutti i nostri contadini e le loro donne furono reclutati per impersonare i ruoli che avrebbero dovuto avere nella storia reale. Nel film i contadini si alzano di notte per andare ad arare le terre incolte e le loro donne corrono contro il potere lungo le terre di contrada “lenze” in un afflato corale che nei racconti di piazza era realmente avvenuto. Nella realtà contava la paga che si percepiva come attori ed era la prima volta che ognuno di loro veniva pagato, a parametri sindacali, per recitare una parte che loro recitavano da sempre: quella dei disperati. Molti di coloro che a questo film avevano partecipato non sono mai riusciti a vederne il risultato perché il film fu proiettato per la prima volta nel cinema di Nicola molti anni più tardi. I pochi sopravvissuti ebbero così il destro di imbastire una storia nella storia attraverso il racconto di tanti e tali aneddoti che a raccontarli tutti non basterebbe un altro film.
Ma la bella stagione era anche la stagione del risveglio e, come il cielo brulicava di uccelli e d’insetti, così le strade di San Mauro si animavano di un continuo via vai di carri agricoli, trainati da buoi o muli, che spesso lasciavano delle gigantesche cacche sul selciato a chiazze immerso in un fango composito e variegato, mentre il contadino ritto sul carro commentava con solenni bestemmie o, peggio, facendo roteare la corda del frustino, che, ricadendo, sfiorava la pelle sudata del povero animale, che continuava il suo lento, ritmato e faticoso procedere. Intorno ai carri correvano i bimbi, che, facendo a gara con le rondini per il frastuono, non si capiva se stessero dalla parte del contadino o dell’animale.
Passavano rare automobili, forse per sbaglio o perché costrette da un assoluto misterioso dovere, ma il fatto diventava un evento, di cui i paesani discutevano a lungo, arricchendo le informazioni di particolari veri o immaginati; il postale invece passava ogni mattina e portava tutti gli operai e i pochissimi studenti, diretti a Santa Severina, a Petilia Policastro o a Crotone e Catanzaro, partendo da san Giovanni in Fiore, da Cotronei e da Savelli. Alcuni privilegiati andavano in lambretta.
Mentre i bambini, abituati a seguire il lavoro dei grandi fin dalla più tenera età, talvolta si sfrenavano nei giochi all’aperto. Dopocena, le famiglie portavano le sedie davanti alla porta di casa, mentre i vecchi sommavano detti, proverbi, ricordi e pettegolezzi in una litania simile ad un canto profetico.
Le feste religiose e le fiere interrompevano il ritmo quotidiano, consolidatosi nei secoli, ma anche questi momenti rafforzavano il legame e la continuità fra le attività umane e i tempi della natura. Le fiere cadevano in coincidenza della semina, della mietitura, della trebbiatura e della vendemmia e le feste, tanto profane che religiose, esprimevano con ritualità diverse il sentire della gente di fronte alla terra. In queste occasioni eccezionali di festa il paese apriva le sue strade a tutti, anche ai contadini della campagna circostante e ai commercianti, provenienti dalla città o da altre località lontane; ciascuno si permetteva libertà, prodigalità, esagerazioni, trasgressioni e allegrie, impensabili nella quotidianità; una sorprendente euforia animava lo spirito d’ogni individuo e diventava il clima generale del paese e della sua gente, confortata da una comune fiducia nella natura e nelle sue leggi, che avevano previsto un destino comunque utile alla vita per ciascuna delle sue creature, dall’ultimo bimbo nato alla più vecchia mucca, in attesa di compravendita insieme a tante sorelle, ai buoi, ai vitelli, ai maiali e a tutti gli animali da cortile